Chiesa di pietre vive – relazione mons. Franco Giulio Brambilla

Leggendo i testi di sintesi del vostro fecondo lavoro di preparazione, mi è sorto nel cuore di proporre tre semplici istanze per stimolarvi a “immaginare la chiesa” di domani: una Chiesa di pietre vive, una Chiesa estroversa, una Chiesa dai molti volti.

  1. Una Chiesa di pietre vive

«1Allontanate ogni genere di cattiveria e di frode, ipocrisie, gelosie e ogni maldicenza. 2Come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, 3se davvero avete gustato che buono è il Signore»

4Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, 5quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo.

9Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. 10Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia (1Pt 2,1-3.4-5.9-10).

Seguo come canovaccio la Prima lettera di Pietro. Prendo le mosse dalla sezione programmatica della lettera (1Pt 2,1-10). Il brano è molto famoso ed è citato ben 13 volte nei documenti del Concilio Vaticano II. Esso illustra il fondamento del sacerdozio santo di tutti i fedeli in Gesù Cristo, la sua radice battesimale, la sua qualità ecclesiale, la sua finalità spirituale. Gli stili, i gesti e i soggetti pastorali della chiesa sono orientati a far crescere la vita dei cristiani come culto spirituale. Che cosa significa questo linguaggio? Bisogna avere la pazienza di seguire un poco la Prima lettera di Pietro.

Pietro, nella prima parte della lettera, descrive la “chiamata alla santità” fondata sulla nuova nascita (1Pt 1,13-25) e, proprio nel nostro brano, introduce il tema della “testimonianza dei credenti” invitando, lui che è la roccia, a costruire sul fondamento stabile di Cristo (1Pt 2,1-10).

L’Apostolo scrive una lettera avvincente e di rara bellezza che ha esercitato un fascino su molte generazioni cristiane. Lo stile è elegante e ricercato, tanto che lo scritto contiene 61 termini originali e 74 parole che ricorrono solo due volte in tutto il Nuovo Testamento. L’Autore è una personalità singolare, ben inserito nella tradizione di fede, conoscitore della vita liturgico-catechetica e attento alla situazione dei suoi destinatari.

Essi sono credenti della zona centrale dell’Asia minore (oggi Turchia) di cinque province romane, misti tra pagani (la maggior parte) e giudei, evangelizzati da Paolo e dalla Chiesa di Gerusalemme. Questi cristiani vivono in difficoltà, in mezzo a ostilità e diffidenze, oggetto di sofferenze, forse anche di persecuzioni e devono rendere ragione della loro speranza. Lo scopo della lettera è quello di esortare, istruire, incoraggiare i credenti in difficoltà a “stare saldi”. Coloro che sono provati dalla sofferenza vengono invitati a una coraggiosa speranza.

Tre aspetti critici definiscono la situazione dei destinatari: sono in contrasto con la società che li circonda, la conversione ha cambiato il loro stile di vita, portano le domande di sempre: perché i buoni soffrono? Perché Dio mette alla prova? Dov’è Dio in tutte le incertezze della vita?

“Rendete ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15): questo è il leitmotiv della lettera. È rivolto a tutti i credenti, prima ancora della differenza dei loro compiti e funzioni. Semplicemente perché sono credenti, possono e devono diventare testimoni della speranza “viva”. Questo aggettivo attraversa come un filo d’oro tutta la lettera. Se non abbiamo una “fede viva” che ha incontrato in modo personale il Signore vivente e ne attende il ritorno, come si può rendere ragione qui e ora della “speranza viva”? Questa è la sfida che abbiamo dinnanzi per i prossimi anni.

Tutta la lettera, infatti, mira a presentare la vicenda, la passione e la risurrezione di Cristo come sorgente di “speranza viva” (eis elpída zõsan: 1Pt 1,3). Nel capitolo secondo, dove è collocato il nostro testo, Pietro delinea il passaggio da Gesù ai credenti, da Cristo alla chiesa. La chiesa si fonda sulla pietra angolare che è Cristo ed è immaginata come un tempio santo, un edificio spirituale, compaginato di pietre vive che sono i cristiani. In esso si celebra il culto spirituale, la vita dei credenti nella carità gradita a Dio. Questo è il messaggio centrale della lettera. Non si può rendere ragione della speranza viva se non innestati nel grande edificio della vita ecclesiale. Fuori di essa la speranza è solo un azzardo fallace, un tentativo destinato ad andare a vuoto.

Per illustrare la relazione tra Cristo e la chiesa, l’Autore tratteggia tre immagini – la prima materna, la seconda edilizia, la terza storico-salvifica – per dire come Gesù è la pietra angolare della chiesa e come la chiesa è generata da Cristo. Ciò avviene in un crescendo di grande bellezza.

La metafora materna

La prima immagine richiama la generazione. Il capitolo si apre con il tema della nuova nascita del credente e della chiesa. Esso inizia così: «Allontanate ogni genere di cattiveria e di frode, ipocrisie, gelosie e ogni maldicenza. Come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato che buono è il Signore» (1Pt 2,1-3).

Pietro svolge l’immagine materna all’inizio con un’osservazione negativa (v. 1), poi richiama in positivo il desiderio del nutrimento “spirituale” (v. 2) e, infine, indica la sua sorgente inesauribile nella bontà del Signore Gesù (v. 3). Il momento negativo è introdotto, nel testo greco, da un participio con valore di imperativo (Avendo allontanata dunque ogni cattiveria e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza, cioè «Allontanate!»): la nuova nascita, la rigenerazione dei cristiani comporta di lasciare l’uomo vecchio per ricevere il nuovo.

Sono descritti cinque atteggiamenti che minano nel cuore la vita di comunità anche buone. Essi sono la cattiveria (kakía: il gusto di volere gratuitamente il male dell’altro), la frode (dólos: mostrare agli altri ciò che non si è o non si ha); l’ipocrisia (ypókrisis: fingere di avere un’immagine che non si ha), le gelosie (phthónoi: tipiche di ogni comunità, quando si sente l’altro trattato meglio, considerato di più), la maldicenza (katalaliá: dire male degli altri insinuando denigrazioni o cose negative).

Segue il momento positivo, introdotto con la bellissima metafora del latte desiderato dai bimbi (come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza): i credenti e la comunità sono generati dalla parola di Dio. Il desiderio della Parola è descritto con l’immagine dell’avidità con cui il bimbo succhia il latte dal seno della madre. È l’esperienza dei primi cristiani che bramano ardentemente il «genuino latte spirituale» della parola di Dio. È la parola del Vangelo che trasforma, nutre, illumina, purifica, fa crescere e conduce alla vita buona. Nella Bibbia il latte, insieme al miele, indica la promessa di Dio.

Per questo la parola di Dio è viva e personale, anzi è la persona stessa del Signore Gesù: «se davvero avete già gustato come è buono il Signore» (v. 3). La citazione del salmo 34,9 riferita a Dio, ora è applicata a Cristo risorto, speranza viva.

La metafora edilizia

La seconda immagine rimanda alla edificazione. Dalla metafora del latte della Parola, alimento della rigenerazione del credente e della comunità cristiana, il passaggio alla metafora edile è abbastanza naturale. S’introduce il brano famosissimo, che instaura la stretta relazione tra Cristo “pietra viva” e noi che siamo impiegati e sagomati come “pietre vive”.

La relazione tra Gesù e i credenti, tra Cristo e la sua comunità di pietre vive è immaginata come una grande cattedrale (costruzione di un tempio spirituale), in cui si esercita un sacerdozio santo che offre sacrifici spirituali graditi a Dio. Ecco perché c’è la chiesa! Per dire e generare negli uomini il volto di Cristo.

Anzitutto, il bel v. 4 (Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio) afferma che è importante la scelta del fondamento, a cui bisogna stringersi, su cui bisogna edificare. Cristo è la pietra viva, la roccia sicura, che bisogna scegliere: anche se è rigettata dagli uomini, rimane preziosa davanti a Dio. Si noti il bel gioco di significati: è Pietro che parla! Egli è la roccia su cui viene edificata la chiesa, che però rinvia alla pietra angolare che è Cristo, senza della quale la chiesa è costruita sulla sabbia. Pietro e gli apostoli ne sono il segno visibile di unità, mentre Cristo è il fondamento reale del tempio spirituale.

Su Gesù pietra/roccia viva, anche noi come “pietre vive” dobbiamo lasciarci edificare (da Dio), come “casa spirituale”. La casa spirituale è costruita da un tempio di persone. È l’opera di Dio che esige di lasciarsi continuamente posare e sagomare sul fondamento che è Cristo.

Viene, poi, indicato lo scopo (eis) di questa casa/tempio: per un sacerdozio santo. Il termine “sacerdozio” ricorre solo qui e in 1Pt 1,9: la nuova nascita dei credenti fa della chiesa un nuovo tempio spirituale, dove si esercita un sacerdozio santo. È sorprendente che tutte le metafore del culto antico siano ora trasferite al nuovo tempio e al nuovo sacerdozio che è la chiesa, la comunità che offre il culto a Dio: essa offre sacrifici spirituali graditi a Dio. Il servizio sacerdotale necessita che si eserciti un sacrificio spirituale (2,5) con la proclamazione della parola (2,9). Tutto il popolo di Dio è sacerdotale!

La metafora edile arricchisce il passaggio da Cristo alla chiesa di tre elementi nuovi: il fondamento, la costruzione, l’azione. Il fondamento è Cristo pietra viva, la costruzione è il tempio santo edificato di pietre vive, l’azione ha come soggetto il sacerdozio santo e come atto i sacrifici spirituali.

In primo luogo, anche oggi non bisogna sbagliare il fondamento. L’Apostolo ci richiama la fedeltà alla pietra angolare: questa fedeltà si basa su una scelta, che è critica e positiva insieme, critica perché la pietra angolare è “scartata dagli uomini”, positiva perché è “scelta e preziosa davanti a Dio”. Bisogna avvicinarsi a Lui, cercarlo, amarlo, seguirlo, sceglierlo ogni volta come il centro, come colui che sta sopra ogni cosa e che è presente tra di noi quale motivo reale della vita buona.

Nelle nostre comunità, nelle parrocchie, nel rapporto tra di esse, deve emergere prima o poi, meglio se presto, che la ragione della nostra speranza è il Signore! Vi sono persone, vescovi, preti e laici, che sembrano dire con i loro giudizi, i loro gesti, i loro mezzi, che il centro è il proprio io, la realizzazione di sé, un attivismo sfrenato, che trasforma la comunità in una sorta di Pro loco e che sequestra le attività come un piccolo regno in cui primeggiare, lamentandosi poi di essere lasciati soli.

In secondo luogo, la metafora edilizia ci parla della costruzione. Siamo sempre di nuovo “edificati”, “addomesticati” e “ben compaginati” (oikodoméo è un presente continuo) come “pietre vive” (quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale). Come Cristo è scelto da Dio quale pietra angolare, così anche noi siamo scelti, eletti. L’elezione del credente non significa una selezione, un privilegio contro gli altri. L’unico privilegio che il cristiano conosce è quello del servizio e della missione a favore di altri. La scelta di Dio, cioè il dono della fede, dice che nessuno è padrone, ma “servo inutile” (Lc 17,10). Inutile non perché non serva, ma perché lo fa gratuitamente e con cuore libero.

Poi “veniamo edificati” come “pietre vive”. Entrare nella chiesa è un dono: siamo chiamati, scelti e, come la pietra, che è materiale inerte e amorfo, siamo vagliati, sgrossati, sagomati e scalpellati per essere incastrati e compaginati al fine di costruire un edificio spirituale. La “voglia di comunità” che attraversa oggi la nostra società individualista non è solo uno “star bene insieme”, ma soprattutto un “camminare verso il bene” e “facendo il bene”, anzi deve costruire un edificio spirituale, una grande cattedrale dello spirito. Mi ha sempre colpito la forza di questo testo.

Ognuno di noi può pensare alla costruzione di una grande chiesa: un geniale architetto concepisce il suo progetto, un innumerevole gruppo di persone (specialisti, artigiani, semplici lavoratori, ognuno col suo compito, tutti partecipando all’unica impresa) deve concorrere insieme perché sorgano le bianche cattedrali del gotico e le splendide basiliche del rinascimento. Nessuno si lamenta del suo compito, tutti partecipano all’unica passione della costruzione del tempio santo.

Nessuna pietra pensa di essere un tassello inutile, perché non svetta sulla guglia del duomo. Anche i gradini di ingresso sono importanti per introdurre al centro del tempio santo, così come i decori dei capitelli rendono splendente il racconto dell’edificio spirituale. Ogni “pietra viva” ha il suo posto: chi sta presso l’entrata può favorire l’ingresso, chi sta nel portico fa passare dal profano al sacro, chi è nella navata accoglie la vita della gente, chi sta nel presbiterio fa transitare al santo, chi è nell’abside intravede lo sguardo del Cristo benedicente e creatore di tutte le cose. L’architettura del tempio narra la vita della chiesa che raccoglie gli uomini e le donne in comunione e li fa uscire in missione.

Possiamo dire che le nostre comunità siano variegate e dinamiche come le pietre di una grande cattedrale? L’“edificio spirituale” che dobbiamo costruire è la chiesa di persone, è la casa di tutti, ma questo “tutti” non indica un numero generico, ma una foresta lussureggiante di pietre vive diverse, amanti, oranti, speranti. Ed è noto che la chiesa di mura, dalla domus ecclesiae antica alla chiesa romanica, dalla cattedrale gotica alla basilica rinascimentale, dal monumento barocco al duomo neoclassico (come il nostro dell’Antonelli), per non parlare delle chiese del Novecento, si chiama “chiesa”, perché è il luogo in cui si raduna la chiesa di “persone” e le persone che fanno “chiesa” (ecclesìa). Comunità convocata per essere inviata. Non gruppo di prescelti o perché hanno affinità elettive, ma assemblea di coloro che hanno sperimentato misericordia per trasmettere tenerezza e carità.

In terzo luogo, bisogna precisare bene l’azione: l’agire pastorale ha come soggetto un sacerdozio santo per offrire sacrifici spirituali. Non solo il luogo, una comunità di persone, ma anche l’azione, la vita spirituale delle comunità, è decisiva. Il tempio spirituale è per un sacerdozio santo che offre sacrifici spirituali. Con una precisazione essenziale: quel sacerdozio e quei sacrifici spirituali non riguardano tanto le “cose” spirituali, ma sono tutta la vita umana vissuta come “culto spirituale”.

Non si va in chiesa a celebrare il culto per poi tradurlo nella vita. Questo ha già separato ciò che è originariamente unito: la vita umana, quella di tutti, non può essere vissuta degnamente senza legami e senza riti. Lo dice il Piccolo Principe al capitolo 21: nessuno (come la rosa) è unico e singolare per il piccolo principe senza un legame di cura e di amore. E per costruire legami ci vogliono riti.

La vita nell’amore e nella carità, la vita di comunione, la vita umana degna d’essere vissuta, è fatta di legami e di riti. Diventa “vita nello Spirito”, se quei legami e quei riti si lasciano toccare dalla grazia del Signore, dalla sua presenza che offre sé stesso per noi. La vita diventa culto “spirituale” (vita di comunione e carità) se è animata e toccata dal culto “rituale”, dal dono della pasqua di Gesù (presente nella sua Parola, nella sua Eucaristia e nei Sacramenti). I sacrifici spirituali hanno bisogno del sacrificio rituale. Questa è la chiesa di Gesù!

La metafora storico-salvifica

La terza immagine rimanda alla storia della salvezza. Dopo una lunga spiegazione biblica (1Pt 2,6-8) su Gesù pietra angolare, scelta e preziosa, motivo d’inciampo per chi non crede, ma di onore per chi crede, l’autore passa nel v. 9 alla metafora storico-salvifica del (nuovo) popolo di Dio. Tutti i termini che provengono dall’Antico Testamento per descrivere Israele, sono ora indirizzati a noi (voi siete), al nuovo popolo eletto: «Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce».

Le caratteristiche del nuovo popolo sono quattro. Stirpe eletta: il nuovo popolo è la “stirpe eletta”, perché si radica su Gesù che è pietra scelta (è lo stesso termine applicato a Gesù: vv. 4.6); sacerdozio regale: il sacerdozio santo del v. 5 ora è il “sacerdozio regale”, cioè appartenente al regno di Dio, la forma testimoniale del popolo sacerdotale; nazione santa: la santità appartiene ai credenti in forza dell’elezione che li manda nel mondo come testimoni, dove devono annunciare la loro singolare appartenenza a Dio; popolo (da Dio) acquistato: è il titolo che indica i credenti come una speciale proprietà di Dio, liberati mediante la redenzione nel suo sangue prezioso (1,19) . Le quattro proprietà del popolo cristiano sono attive e dinamiche.

Attraverso il poliedro delle qualità che formano la chiesa, il nuovo popolo di Dio ha un compito unico e una finalità missionaria: affinché proclamiate le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce. Ciò che i credenti devono annunciare sono le azioni e le opere meravigliose di Dio che li ha fatti passare dalle tenebre dell’uomo vecchio alla luce splendente dell’uomo nuovo.

La terza immagine della chiesa come (nuovo) popolo di Dio ne tratteggia la missione storica. Tutti i cristiani sono testimoni e la chiesa è testimonianza. Il cristiano nella chiesa e la chiesa nei cristiani hanno l’unica missione di annunciare le opere meravigliose di Dio (mirabilia Dei): dire e donare Gesù risorto agli altri nella lingua degli altri. Questa è l’opera mirabile di Dio. Egli fa buona la vita degli uomini e delle donne, rendendo giusta e santa la loro vita, prendendo i loro linguaggi e facendosi capire e amare in ogni linguaggio umano.

Questa è la nuova Pentecoste, questa è l’azione dello Spirito Santo, questo è il miracolo delle lingue! Non si tratta di visioni strane e di rivelazioni private, ma della capacità tutta cristiana, che sa far memoria della singolarità della vita di Gesù nella storia plurale delle persone, dei popoli e delle culture. Per questo il cristiano è “memoria spirituale”: “memoria” perché rende presente Gesù nell’oggi, “spirituale” perché lo fa con un sapere e un agire che assume la lingua e i costumi, la cultura e le tradizioni, le domande e i desideri del proprio tempo.

2. Una chiesa estroversa

«Se comunico ai miei uomini l’amore della rotta sul mare in modo che ognuno sia attratto da una forza interiore, allora li vedrai ben presto differenziarsi secondo le loro infinite qualità particolari. Questo tesserà delle tele, l’altro abbatterà l’albero nella foresta con la sua tagliente scure, l’altro ancora fucinerà dei chiodi e in qualche luogo ci sarà qualcuno che osserverà le stelle per imparare a dirigere il timone. E tuttavia tutti insieme non saranno che uno solo. Costruire una nave non significa tessere le tele, fucinare i chiodi, osservare gli astri, ma infondere il gusto del mare che è unico e alla luce del quale non esiste più nulla di contraddittorio, ma soltanto una comunità nell’amore» (Antoine de Saint-Exupéry, Cittadella, riduzione e traduzione di Ezio L. Gaya, Borla, Torino 1965, p. 167-168; originale, Citadelle, Gallimard, Paris 1948, LXXV).

Infondere nel tempo presente il gusto per il Vangelo può essere solo un’operazione corale, secondo la bella espressione di Paolo VI, da poco dichiarato santo. Alla vigilia del concilio, egli diceva con tono ispirato: «Il Concilio è una straordinaria occasione ed uno stimolo potente per aumentare in tutta la cattolicità il “senso della chiesa”. Sembra pronunciata per questa circostanza la memorabile parola di Romano Guardini: “Si è iniziato un processo di incalcolabile importanza: il risveglio della chiesa nelle anime”»1.

L’espressione “il risveglio della chiesa nelle anime” corrisponde oggi alla “passione del Vangelo per gli uomini“. È uno slancio che dobbiamo continuamente imparare dalla bocca e dal gesto di Gesù. È una passione che ha bisogno di donne e uomini coraggiosi, perché non può essere solo affare dei preti, ma di tutti i cristiani che vogliono essere semplicemente “testimoni”. È un cammino che deve avere la lungimiranza della meta e la pazienza del tempo per raggiungerla. Slancio, passione e cammino possono essere osati solo nella coralità del sensus ecclesiae, che è un vero “risveglio della chiesa” come casa e scuola per la missione.

Prenderò come canovaccio dal vangelo di Marco il primo nucleo (Mc 6,7-13) dei discorsi missionari, ripreso e ampliato anche negli altri vangeli sinottici (Mt 10,1-23; Lc 10,1-20). Il testo di Marco è il più breve e propone alla nostra riflessione la formula concisa del manuale di missione per i primi cristiani. Per sé non è una traccia solo per i vescovi e i preti, ma per i discepoli missionari, per la figura dell’apostolo o del profeta itinerante.

Siamo ancora all’inizio del vangelo di Marco, al capitolo 6. Gesù dà le indicazioni per tutti i discepoli che sono inviati in missione. Questa è la sfida dei prossimi anni. I sacerdoti stanno diventando sempre di meno, sta aumentando anche la loro età media, i volti si sono fatti rugati e affaticati e la chiesa avrà futuro se sarà la chiesa di tutti i cristiani, di tutti i cristiani come testimoni. Mi soffermo su quattro aspetti contenuti in questo vangelo.

1.1 L’identikit della missione

Il primo aspetto traccia l’identikit della missione. L’evangelista dice che Gesù «chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro il potere sugli spiriti impuri» (v. 7). Il testo allude al libro del Qohelet dove si dice che «è meglio essere in due che uno solo» (Qo 4,9). Fin dall’inizio Marco parla di un invio dei discepoli due a due, anche se l’invio “due a due” diventerà un tema di fondo di Luca. Nel suo vangelo Gesù invia in missione settantadue discepoli, corrispondenti alle settantadue nazioni, citate nella tavola dei popoli del libro della Genesi (Gn 10).

Anche nel vangelo di Marco, dunque, Gesù manda a due a due. La missione cristiana, a differenza dei profeti dell’Antico Testamento, è una missione che non può essere fatta in proprio, da soli, non prevede profeti isolati. Magari ci saranno alcuni pionieri, ma non potranno essere profeti unici. Chi si isola, farà anche del bene, potrà avere tanta gente intorno, ma quando non ci sarà più lui, tutto sarà finito. Sarà forse ricordato come un mito, ma lascerà molti orfani, perché con le sue parole e i suoi gesti avrà trasmesso il messaggio: dopo di me non ci sarà più uno come me. Difatti, i primi testimoni, i primi missionari sono sempre in coppia, Paolo e Barnaba, Barnaba e Marco, Paolo e Sila, e si potrebbero fare tutti i nomi di coloro che anche oggi svolgono una missione in solido. Da solo magari è bello, forse potrà solleticare il nostro narcisismo, ma non si potrà essere fecondi: si avranno molti ammiratori, ma pochi imitatori.

La missione ha poi un duplice movimento: il primo fa rimanere presso Gesù (“chiamò a sé i Dodici”) e il secondo proietta verso il mondo (“prese a mandarli a due a due”). La fisiologia della missione deve temere come grave malattia sia i cristiani indaffarati che non hanno mai tempo per “stare con Gesù”, sia i cristiani intimisti che non sono mai pronti “per essere mandati”. I primi si realizzano nel fare, i secondi non sono mai in grado di partire. Un cristiano armonico alterna nella sua sintesi personale preghiera e impegno, ascolto e annuncio, celebrazione e carità, formazione e animazione nel mondo. La missione di Gesù fa condividere il suo potere di servizio (“dava loro il potere sugli spiriti impuri”) per la guarigione da ogni forma di sofferenza, di miseria e di soggezione al potere schiavizzante del Maligno. L’azione pastorale della chiesa vive nella sfera di azione del potere salvifico di Gesù: più che prolungarlo nel tempo, mette in contatto gli uomini con la sua forza di guarigione, mediante il suo Spirito. In questo senso la missione della chiesa sta dall’inizio alla fine sotto l’azione dello Spirito Santo.

1.2 La dotazione della missione

Il secondo aspetto indica la dotazione della missione. Gesù «ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura, ma di calzare i sandali e di non portare due tuniche» (v. 8-9). L’elenco di Marco, che indica la dotazione di base del cristiano in missione, è strano, se lo confrontiamo con Matteo e Luca, al capitolo 10 di entrambi. Nel suo testo notiamo due eccezioni nella dotazione del discepolo missionario, il bastone e i sandali, mentre in Matteo e Luca anche questi sono strumenti da non portare. Questo va compreso bene, perché gli esegeti dicono che si tratta di cinque negazioni (“né pane, né sacca, né denaro nella cintura… di non portare due tuniche”) con due eccezioni, i calzari e il bastone, che sono la dotazione del popolo per l’uscita dell’esodo, per il passaggio del mare (Es 12,11).

La missione è un passaggio di liberazione pasquale. Nei prossimi anni saremo chiamati anche noi a una missione povera per i poveri, non solo per coloro che al venti del mese hanno preoccupazioni per tirare la fine del mese, ma anche per le altre forme di povertà, quelle interiori, che sono paradossalmente più difficili da superare, perché le povertà esterne sono imposte, mentre la libertà interiore va conquistata. È la libertà dalle cose, la libertà dal tempo e la libertà del cuore.

Il testimone cristiano – diciamolo anche ai giovani che saranno i testimoni di domani – è uno che sa usare bene le cose, il tempo e ha il cuore libero. Il cardinal Martini usava tre aggettivi molto belli: un cuore libero, sciolto e generoso. Dobbiamo cominciare noi, non dobbiamo solo chiederlo agli altri. Dovremo essere domani una chiesa libera, sciolta e generosa. Altrimenti quello che non abbandoneremo noi, ce lo faranno lasciare gli altri o le circostanze d’intorno. Per questo è necessario un confronto tra preti e laici, tra comunità e famiglie per ritrovare stili di essenzialità nelle nostre comunità. Il rapporto con i beni e le cose, ma soprattutto la libertà nel ministero e la gratuità dei ministeri già esistenti (liturgici, catechistici, caritativi e missionari) e di quelli ancora da pensare e inventare deve essere immersa in un clima di gratuità, disinteresse, libertà interiore e scioltezza.

1.3 I gesti della missione

Il terzo aspetto riguarda i gesti della missione. Gesù fino a questo punto della sua istruzione parla in discorso indiretto, come se proponesse un manuale delle istruzioni per il missionario, per il cristiano testimone. Da qui in avanti Gesù, invece, parla in discorso diretto. È come se si rivolgesse personalmente a ciascuno di noi. «Diceva loro: “Dovunque entriate in una casa rimanetevi finché non sarete partiti di lì…» (v. 10). Potremmo dire che qui sono indicati i gesti della nostra testimonianza.

Sarà difficile nei prossimi anni trovare ciò che è essenziale per la vita personale e per la famiglia, per la chiesa e per la società. I gesti della testimonianza (“rimanere, proclamare, scacciare demoni, ungere le piaghe, guarire il cuore”) dovranno trovare il ritmo giusto tra animazione e formazione. Pensiamo agli adolescenti e ai giovani: se li animiamo soltanto, ma non li formiamo, dopo che hanno finito di socializzare, non sanno per che cosa stanno insieme. Quando sorgono i primi disturbi nel legame fra amici, questi producono l’abbandono del gruppo. Quando ci sono le prime difficoltà relazionali, si lascia con il gruppo anche il cammino di fede. Sappiamo che, quando c’è il Grest, i nostri oratori sono pieni di ragazzi e adolescenti, ma quando si pigia un po’ di più l’acceleratore sulla formazione, sovente rimangono in pochi. Hanno vissuto in gruppo, ma non hanno fatto squadra per giocare la partita della vita. “Fare squadra” esige allenamento e disinteresse in vista del gioco comune. Soprattutto esige tempo, perché il campionato della vita deve allenare all’ideale e alla lotta corpo a corpo con i propri limiti, con gli alti e bassi della vita. Non possiamo immaginare che si possono tenere insieme le persone, senza la formazione per coltivare un sogno, un progetto di vita.

Così dobbiamo tenere insieme le altre polarità, presenti nei gesti della testimonianza: tra ascolto e proposta, tra prossimità e annuncio, tra consolazione e progetto, tra guarigione e proclamazione della speranza. Gesù ci dà alcune regole per la missione. In genere, oggi vi sono alcune persone che enfatizzano un aspetto di queste polarità: l’errore non sta nel sottolineare o privilegiare un aspetto, ma nel viverlo in modo unilaterale. Vi sono alcuni che si spendono solo per la carità. È importante la carità? Assolutamente sì, ma non basta. Perché la carità non deve solo rispondere ai bisogni dei poveri, non deve solo trattare con dignità i bisognosi, ma deve liberarli dal bisogno, deve farli diventare liberi e responsabili. Per questo la carità ha bisogno di molta formazione, esige di far crescere il povero nella coscienza della responsabilità.

Ho fatto solo un esempio a riguardo del rapporto tra carità e formazione. Ma potremmo approfondire anche le altre polarità: ci sono persone molto brave nell’ascolto, ma deboli nella proposta, ci sono persone facili nella prossimità, ma deboli nell’annuncio, vi sono persone molto brave nella consolazione, ma deboli nel progetto. Solo mantenendo la polarità tra queste coppie, si costruisce e si promuove la vita. La vita si genera sempre in modo polare: se vince solo un polo, alla fine la vita muore. Gesù ci insegna a restare nelle tensioni positive della vita, che sono i gesti fondamentali della nostra testimonianza.

1.4 Il destino della missione

L’ultimo aspetto indica il destino della missione. Continua il testo di Marco: «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro» (v. 11). Il testo che segue si riferisce alla messa in pratica, quasi alla lettera secondo lo schema comando-esecuzione, di ciò che è stato dichiarato nel discorso diretto da Gesù: «essi partirono e proclamavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano» (v. 12). La testimonianza è fatta di due momenti, che sono il dialogo e il martirio. La stessa parola testimonianza in greco (martyría) significa sia apologia nei tribunali sia sacrificio della vita. Il martirio è la testimonianza che arriva fino al sangue.

Questa è la cosa oggi difficile da comprendere: se saremo cristiani che non hanno più nulla da dire, da attestare, allora diventeremo insipidi. Il termine “dialogo” significa che io ho una parola da dire all’altro, un logos che passa attraverso. Dia-logos significa un logos, una ragione, un significato, una speranza, una fiducia che devo trasmettere a te e che devo scambiare con te. Il dialogo, se non ha una parola forte e un senso concreto da consegnare, alla fine si esaurisce in sé stesso. Molti dialogano senza trasmettere molto, stanno in dialogo una vita per sentirsi vivi.

Il dialogo autentico deve essere capace qualche volta non solo di dire le parole che gli uomini e le donne s’aspettano, ma di chiamare anche gli uomini e le donne a fare un passo in più, a uscire da sé stessi. Questa dinamica è il cuore della nostra testimonianza che può arrivare sino al martirio, e deve resistere anche alle sue forme più sottili che sono l’indifferenza, il rifiuto e la marginalizzazione. Allora da qui viene un’altra serie di domande. Saremo cristiani attrezzati solo per il successo? O saremo anche capaci di metabolizzare il fallimento della nostra missione? Saremo cristiani capaci di prendere il ritmo degli altri, delle persone che ci sono affidate, della pazienza da esercitare nei confronti di chi ci sta accanto, della responsabilità civile, dell’impegno nella nostra società?

È una visione dinamica della nostra vita e della nostra fede. Un cristiano che ha una fede solo privata, che dice: “ognuno ha la sua fede, ma vale solo nello spazio privato”, trasforma la sua testimonianza in un vaso cinese, magari preziosissimo, ma solo da ammirare. Dinanzi a esso si può dire solo: “tu hai la fede, io non ce l’ho, ti ammiro, ma non mi aiuti a imitarti”. La fede diventa un soprammobile, bello da mostrare, ma non è più una realtà che entra nello scambio civile e sociale. Quando dico sociale, mi riferisco a realtà che stanno molto prima della politica, molto prima dell’impegno civile. Riguarda lo scambio di ogni giorno, i rapporti uomo-donna, le relazioni genitori-figli, i rapporti di amicizia, i rapporti tra i gruppi, associazioni e movimenti. La società prima di essere fatta dalla politica è fatta da un tessuto sociale preesistente, perché se la politica non s’innerva su questo tessuto di rapporti sociali forti e significativi, alla fine fa molta fatica ad esercitare il suo compito.

  1. Una chiesa dai molti volti

Non ci nascondiamo le gravi difficoltà del tempo presente, che riguardano soprattutto la possibilità di rendere sempre più e meglio le comunità cristiane luoghi di esperienza del vangelo vivo. Tuttavia sappiamo che non ci sono epoche più o meno favorevoli per accogliere la Parola del Signore, e conosciamo l’energia vitale che promana dalle sue «parole di vita eterna» (Gv 6,68). Esse risuonano ancora oggi nella loro freschezza, soprattutto se vi sono evangelizzatori forti e coraggiosi che annunciano ciò che vivono.

Di fronte al compito di fare una chiesa dai molti volti, l’obiezione più facile riguarda la preparazione e la formazione dei laici per partecipare alla missione della chiesa, anche perché un’idea molto diffusa li aveva confinati nella “animazione del mondo”. Se aspettiamo che la formazione sia portata a compimento, forse nessuno oserà mai partecipare al compito apostolico della chiesa. Nella storia non è mai successo così: dal Nuovo Testamento fino ad oggi, molti laici si sono appassionati al vangelo, spesso perché chiamati da un apostolo o perché si sono offerti per condividere un’opera ecclesiale. Sovente senza chiedere approvazioni e riconoscimenti. È missionario chi si sente mandato a far risuonare il vangelo oggi: la sua è un’intuizione e un impulso della mente e del cuore. Ciò che conta è la sua passione, ma questo non esclude la sua formazione.

Perciò svolgerò alcune riflessioni sulla a) dimensione ecclesiale della fede come sfondo di ogni ministero laicale; poi offrirò b) qualche indicazione sulla formazione dei laici, disegnando gli ambiti dei percorsi formativi.

  1. La dimensione ecclesiale della fede come sfondo di ogni impegno laicale

Esiste un malinteso diffuso che è utile dissipare sin dall’inizio e che assume subito due forme abbastanza vistose: la prima è quella che confonde cristiano “ecclesiale” e cristiano “impegnato”; la seconda è quella che pensa al cristiano “impegnato” come al cristiano “parrocchiale”.

La prima confusione è assai presente soprattutto in quei credenti che si sentono “più vicini” alla parrocchia e in particolare al sacerdote. Avere coscienza e pratica di chiesa richiede di impegnarsi per la comunità e in particolare per le attività che essa propone. “Ecclesiale” equivale a “impegnato”, magari anche impegnato in parrocchia (o in altre istituzioni o movimenti ecclesiali). Anche chi contesta questa maniera unilaterale di pensare la dimensione ecclesiale della fede, perché è occupato nella professione o in compiti che lo portano lontano dagli ambienti ecclesiali, sente la propria testimonianza come una testimonianza privata, ma senza intenzione ecclesiale. Non pensa che anche nel mondo la sua fede non dice solo di sé, non testimonia soltanto la sua coscienza cristiana, ma attesta un’appartenenza ecclesiale. E con questo anch’egli conferma l’equivalenza tra “ecclesiale” e “impegnato”. Nel mondo, in casa, in famiglia, nel lavoro, tra gli amici, non si dà propriamente testimonianza della propria appartenenza alla chiesa, ma quando va bene solo della fede privata e individuale. Ci si dice “cattolici”, ma questo è il titolo del proprio credo, non il nome di una comunione che alimenta la propria coscienza e le scelte d’ogni giorno.

Da qui proviene anche la seconda confusione: se ecclesiale significa impegnato, allora impegnato significa dedicato alla chiesa, in particolare alla parrocchia (e a ciò che le sta attorno). Anche questa restrizione alla forma concreta dell’impegno ecclesiale è assai diffusa e può avere persino buone ragioni: quando uno incontra praticamente la chiesa si rivolge alla parrocchia. Sembra del tutto naturale, quindi, concludere che l’impegno ecclesiale corrisponda al servizio parrocchiale. La dimensione ecclesiale, tuttavia, descrive anzitutto una coscienza e una qualità della vita cristiana come tale, e non immediatamente l’ambito e l’oggetto del proprio impegno.

Una sana fisiologia del ministero laicale esige, perciò, di riconoscere francamente che la dimensione ecclesiale appartiene, almeno virtualmente, alla vita cristiana come tale. Non c’è esistenza cristiana che non abbia una rilevanza ecclesiale. Anche chi contingentemente non può far nulla per gli altri, anche chi per molto tempo è trattenuto per la famiglia e il lavoro, anche chi è assorbito nel mondo, anche chi ha fatto una scelta di vita che lo porta lontano dagli ambienti ecclesiali, non può non sperimentare il vantaggio di appartenere ad una comunione, senza la quale anche la sua fede personale si inaridirebbe e morirebbe. In un tempo di appartenenze deboli, di legami allentati o a distanza, occorre far sentire che il vincolo della comunione precede e fa crescere la fede personale, prima che esso possa tradursi subito in un impegno qui e ora.

Anzi, bisogna dire di più: anche l’“impegno” ecclesiale deve assumere forme più diffuse, meno identificate subito in ministero “riconosciuto” o “istituito”. Molti credenti, nel passato, hanno reso presente la chiesa tra le case e nella parrocchia con una sollecitudine evangelica che si traduceva in forme spicciole di preghiera, di ascolto, di servizio, di prossimità, che non pretendeva né prima né mai il sigillo di autenticità del sacerdote o della parrocchia. Molti hanno servito la chiesa senza nessun riconoscimento della chiesa. Spostare tutta l’operosità ecclesiale dentro l’ambito dei ministeri, è fisiologicamente errato, perché anche questi servizi pastorali saranno come senza contesto. È come se si togliesse l’humus in cui possono crescere o lievitare. Tanto che capita spesso di vedere identificato il servizio con quelli che servono alla chiesa. Servire la chiesa è un modo e un segno per servire la fede e la vita cristiana di tutti.

Sembra paradossale, ma una riflessione sui ministeri ecclesiali deve radicarsi e favorire anzitutto l’ecclesialità della vita cristiana tout court. Altrimenti l’esito è facilmente prevedibile: avremo una privatizzazione della vita cristiana e una professionalizzazione del servizio ecclesiale. Con grave danno per ambedue, non solo sul piano della gratuità, ma della stessa coscienza cristiana. Il battesimo è condizione necessaria e sufficiente per l’appartenenza alla chiesa, ed esige di tradursi nella multiforme e variegata costellazione di dedizioni cristiane che hanno fatto del cammino del popolo di Dio una storia meravigliosa. I ministeri laicali per la comunità e per la missione nel mondo sono una ben precisa configurazione storica della coscienza e della pratica di vita ecclesiale che appartengono a tutti. I primi non devono assorbire le seconde, le seconde sono l’atmosfera perché i ministeri crescano sani, abbiano ricambi, vivano uno stile di gratuità, esprimano slancio missionario, non si clericalizzino, non siano riferiti solo a se stessi.

  1. Una chiesa in stato di formazione: un seminario dei laici?

Il Seminario dei laici è lo strumento di formazione dei laici. Esso comprende anche la formazione diffusa della coscienza cristiana nel normale cammino pastorale. A quest’opera di formazione diamo il nome di “Seminario dei laici”. Perché la vita pastorale sia armonica bisogna distinguere almeno tre momenti della formazione del popolo di Dio. Possiamo immaginare in concreto questo ampio processo formativo con l’immagine dei centri concentrici: il primo più grande riguarda la formazione della coscienza cristiana come tale (b.1); il secondo intermedio che si riferisce alla formazione dei ministeri laicali esistenti e nuovi (b.2) ; il terzo più piccolo che si dedica alla formazione delle équipes pastorali (b.3). Il primo contiene gli altri due, il secondo e il terzo specificano il primo.

b.1 Il cerchio più grande: la formazione della coscienza cristiana

Il primo cerchio più comprensivo procede all’educazione della coscienza testimoniale nel corpo vivo della pastorale. Ciò non avverrà solo per i laici, ma con i laici, uomini e donne. È questa la pista fondamentale per ridare smalto all’attuale volto della parrocchia nel contesto rinnovato delle Unità Pastorali (UP). Le nostre comunità cristiane dovranno collocarsi nei prossimi anni in stato di formazione. Ciò comporta di pensare ai normali gesti della parrocchia nel quadro delle UP, sottolineandone in modo marcato il profilo educativo.

Che cosa significa questo? Mi preme indicare due aspetti. In primo luogo, bisognerà imparare a leggere i bisogni della vita della gente e trovare gli spazi ecclesiali, dove si può stabilire una buona circolarità tra la libertà delle persone e l’annuncio del vangelo. In secondo luogo, bisognerà scegliere e puntare su due o tre momenti della vita delle parrocchie nell’UP che valorizzino tale aspetto formativo della coscienza cristiana.

Spendo una parola per illustrare il primo aspetto. Formare la coscienza cristiana significa far incontrare il vangelo con la vita quotidiana delle persone. Da una parte, infatti, l’azione pastorale incontra i “bisogni umani” delle persone nella loro situazione esistenziale, che richiede una risposta diversificata. Penso alla vita di famiglia, alla crescita dei giovani, al lavoro, alla scuola, allo scambio culturale, all’assistenza sanitaria, alle diverse forme d’intervento di volontariato e di assistenza, alla cura delle condizioni marginali (carità, carcere, migranti), ai luoghi del tempo libero e del divertimento. Di fronte a queste istanze della vita umana la comunità cristiana è stimolata a non presentarsi esclusivamente con la figura del prete, ma s’impegna a leggere con i laici le diverse situazioni a partire anche dalla loro esperienza concreta. Un’azione pastorale, che si misura con semplicità e con verità su queste istanze della vita quotidiana, susciterà energie e cammini nuovi.

Dall’altra parte, l’azione pastorale è a sua volta capace di generare “luoghi umani”, animati dalla comunità cristiana. La comunità crea rapporti nuovi, dinamiche comunitarie fresche, risana a volte situazioni umane deteriori, dà volto anche a quartieri degradati, introduce movimenti di umanizzazione. Diventa allora interessante ripensare il valore educativo dei “luoghi ecclesiali”: la chiesa aperta come luogo di accoglienza; una presenza certa per il colloquio, per il bisogno, per l’incontro, per la confessione; i gruppi di annuncio e di formazione alla fede; l’eucaristia domenicale come luogo di prossimità alla vita della gente; l’accompagnamento delle famiglie e dei bimbi nei primi anni della vita; la presenza educativa nel mondo giovanile; le forme di vita fraterna pensate nel contesto della vita adulta; le modalità di animazione del mondo degli anziani; l’uso elastico delle strutture e dei luoghi parrocchiali.

La parrocchia, che si prende cura della qualità cristiana di queste relazioni, si muove nella linea di una comunità fatta con molte articolazioni e diversi ministeri. Tutto ciò avviene nella comunità cristiana (la parrocchia con le parrocchie vicine) attraverso i percorsi educativi che si svolgono durante l’anno (pastorale giovanile, pastorale familiare, carità, missioni, iniziazione cristiana con i genitori, preparazione al matrimonio cristiano, terza età, ecc.).

Per quanto riguarda il secondo aspetto, suggerisco alcune possibilità come ricchezze già presenti o intuizioni da proporre. Aggiungo l’avvertenza che sarà utile puntare su due o tre scelte nel quadro delle UP, per dare una forte tonalità formativa e qualificare alcuni momenti generativi della vita delle parrocchie. Propongo alcuni percorsi esemplari, che ciascuna UP potrà arricchire :

  • Una proposta qualificata per la messa domenicale nei tempi liturgici forti: con l’aiuto dei ministeri liturgici già esistenti si proponga un cammino di Avvento e di Quaresima con un forte tratto educativo della coscienza cristiana, magari valorizzando anche una “domenica della comunità”.

  • Un percorso dedicato ai genitori dei ragazzi dell’iniziazione cristiana: nel quadriennio dell’iniziazione cristiana dei figli (prima comunione e cresima) si proponga ai genitori un cammino per la riscoperta della vita di coppia e di famiglia, facendo diventare la stagione di iniziazione dei ragazzi anche un momento di maturazione della vita di coppia, accompagnando la famiglia in questa nuova stagione.

  • Un ripensamento coraggioso dei percorsi di preparazione al matrimonio cristiano: la caduta della richiesta di sposarsi in chiesa ci chiede di ripensare radicalmente il corso fidanzati, trasformandolo in percorso di iniziazione al matrimonio cristiano. Bisognerà articolare attraverso nuovi contenuti e strumenti, predisposti dal ’Ufficio Famiglia, il valore aggiunto che la domanda di “sposarsi nel Signore” contiene almeno in modo virtuale: approfondire il senso di una scelta di vita definitiva e come c’entra il sacramento cristiano per far maturare tale scelta.

  • Un cammino speciale di discernimento vocazionale per giovani: come frutto del Sinodo dei giovani, i vicari parrocchiali con i loro gruppi giovanili offrano, magari in sinergia tra più UP vicine, un cammino di orientamento e discernimento vocazionale, con temi cruciali della vita giovanile, quali l’affettività, il lavoro, le relazioni, la scelta di vita, la costruzione del domani.

  • Un luogo di riflessione ed educazione alla carità pratica cristiana: segnali preoccupanti rivelano l’affievolirsi del senso di accoglienza e lo spegnersi della spinta ad una carità attiva. Per questo inquietano la coscienza cristiana: si può pensare alla Giornata mondiale che Papa Francesco ha dedicato ai poveri come a un momento propizio di sensibilizzazione delle comunità cristiane della diocesi.

3.3.2 Il cerchio intermedio: la formazione dei ministeri laicali

Il cerchio intermedio è dedicato alla formazione dei ministeri laicali ad intra e ad extra. È la formazione teologica, spirituale ed ecclesiale, per tutti coloro che hanno già o intendono assumere un incarico ministeriale (membri di consigli pastorali ed affari economici, catechisti, animatori di coppia e famiglia, operatori caritas e missioni, altri servizi ad extra). Essa si realizza, anzitutto, con cammini indirizzati soprattutto alla formazione del sensus ecclesiae. Questo significa almeno due cose: 1) sperimentare in modo pratico (preghiera, ascolto della parola, senso della celebrazione, valore dei servizi ecclesiali) che cosa significa assumere e vivere un ministero nella chiesa; 2) imparare a farsi carico dello sguardo sulla comunità e sulla sua missione nel mondo, con un’ottica ecclesiale e superando i particolarismi, soprattutto quelli tra le parrocchie vicine.

Bisogna elaborare un programma serio e sufficientemente elastico, con un percorso a livello di più vicariati, offrendo una proposta di vasto respiro, che coinvolga molte competenze, capace di suscitare sul territorio persone che si prendano cura della formazione intellettuale, pastorale, spirituale dei laici e con i laici.

La scelta della nostra diocesi è di offrire un “tempo di formazione” che, per così dire, sia la casa del “Seminario dei laici”. Possiamo indicare i destinatari e i contenuti essenziali che potranno essere precisati cammin facendo.

  • Il “tempo di formazione” consiste in una proposta triennale, in modo tale che lungo il triennio tutti i ministeri laicali possano fare almeno un percorso annuale. Esso è pertanto aperto a tutti coloro che hanno già o intendono assumere un incarico ministeriale (membri dei consigli pastorali e affari economici, animatori liturgici, catechisti, coppie e famiglie, operatori caritas e missionari, altri servizi ad extra, come volontari, operatori sociali e politici).

  • Gli “ambiti di formazione” previsti si distendono su cinque sabati con momenti che introducano ai diversi aspetti della vita cristiana, pastorale e sociale, alternando momenti di preghiera, riflessione sulla parola, ascolto di esperti, confronto, laboratori pratici, conoscenza di esperienze.

  • I “temi di formazione” non hanno di mira subito l’abilitazione a un ministero specifico, ma l’educazione al sensus ecclesiae e l’assunzione della capacità di discernimento comunitario. Il programma avrà come suo punto focale la conoscenza e la personale esperienza dei luoghi essenziali dell’agire pastorale della chiesa e delle attenzioni all’umano e ai temi del tempo attuale, come ho cercato di illustrare nel mio Liber Pastoralis2.

  • I “soggetti di formazione” saranno prima di tutto le persone che parteciperanno a questo momento del “Seminario dei laici”. Saranno accompagnati non solo da figure significative della chiesa diocesana, ma si confronteranno anche con altri testimoni della vita cristiana e dell’impegno pastorale attuale, per imparare dal vivo il rapporto con le persone, il senso ecclesiale e il discernimento comunitario.

3.3.3 Il cerchio più piccolo: la formazione delle Équipes pastorali

Il cerchio più piccolo realizzerà la formazione dei membri delle Équipes pastorali. In concreto si dovrà pensare a un “percorso specifico” caratterizzato non solo da un’introduzione teorica, ma anche da momenti – weekend, laboratori di sperimentazione, settimana estiva – in cui sia messa alla prova l’abilitazione pratica di questo ministero pastorale delicato, formando una vera coscienza ministeriale e la capacità di aprire le parrocchie al lavoro pastorale integrato delle UP.

Non potrà mancare anche un forte momento di formazione ecclesiale e spirituale. La povertà di formazione ecclesiale e spirituale genera spesso visioni particolari, ma senza coscienza personale e senso ecclesiale, che non approdano a una vera autonomia cristiana e ministeriale dei laici.

È facile intuire che per entrare con la mente e il cuore in questa vasta opera educativa, la nostra chiesa dovrà mettersi in stato di formazione. Non bisogna farsi prendere dall’assillo di vedere subito i risultati, né bisogna tirare il freno perché si vede che l’opera è ambiziosa. Non dobbiamo lasciare spazio né agli atteggiamenti superficiali di chi pensa di liquidare l’impresa con qualche iniziativa in più, né ai comportamenti disfattisti di chi sta di lato o al termine del cammino, per lasciar passare il corso delle cose.

La formazione della coscienza cristiana e la nascita di nuove vocazioni ministeriali è un’opera del tutto spirituale, perché deve lasciare spazio e lasciarsi fare dall’azione suadente e tonificante dello Spirito Santo. Quando in famiglia nasce un nuovo figlio, tutti devono rigiocarsi gli spazi e i tempi del proprio abitare la casa. Se Dio vorrà, se il nostro cuore sarà stato docile all’azione dello Spirito, potremo vedere nascere la chiesa del terzo millennio, che deve essere una ripresa creativa della tradizione dei martiri, dei monaci, dei vescovi e dei cristiani del primo millennio, insieme alla nube dei santi, dei missionari, degli uomini e delle donne della carità del secondo millennio. Per meno di questo non vale la pena di percorrere le misteriose strade dello Spirito per annunciare ancora oggi e domani la gioia del vangelo.

1 «I concili nella vita della Chiesa», in Giovanni Battista Montini, Arcivescovo di Milano, Discorsi e scritti sul Concilio (1959-1963), a cura di A. Rimoldi, Presentazione di G. Cottier (Quaderni dell’Istituto 3), Brescia – Roma, Istituto Paolo VI – Studium, 1983, 109-124: 114.

2 Si veda: F.G. Brambilla, Liber pastoralis, Quarta edizione rivisitata e aumentata, Queriniana, Brescia 2018, p. 346.