RELAZIONE PROF. LUCA DIOTALLEVI

Contributo intermedio al discernimento delle Chiese che sono in Umbria  

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Carissime amiche e carissimi amici nel Signore, carissimi vescovi e membri dei presbitèri,

«dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono mezzo a loro» (Mt 18, 20). Colui che parla in questa riga di vangelo è qui, ora, in mezzo a noi. Non come un vecchio parente che ci è venuto a trovare e che senza disturbare se ne sta tranquillo seduto in poltrona nella stanza accanto. Gesù Cristo, colui per la cui vita fedele sono privati di forza i Principati e le Potestà di questo mondo (cfr. Col 2, 15), Lui stesso, proprio adesso, sta portando a compimento la Sua lotta, che è la nostra lotta. Il Gesù qui in mezzo a noi è il Re che attraversa vittorioso la storia dei nostri giorni e che in questa storia ci accompagna e ci chiama. Per questa ragione anche ora risuona per noi l’invito: «Ascoltate oggi la sua voce: “Non indurite il cuore”» (Sal 94, 8a).

Il discernimento dei segni di questo Suo agire alimenta una speranza cui non serve alcun ottimismo, una speranza che è compagna ed anima del realismo cristiano.

Dopo tanto tempo, dopo troppo tempo, siamo di nuovo qui. Che si sia qui è la notizia buona, che sia passato tanto tempo è quella cattiva. Aver accolto l’invito dei vescovi al discernimento è indizio che vorremmo camminare insieme più di quanto non è avvenuto nel recente passato. Né sottovalutiamo che questa nostra disponibilità a camminare insieme è un fatto raro, non solo nel presente e nel recente passato ecclesiale, ma anche e non di meno nel recente passato e nel presente della vita civile della nostra regione popolata sempre più da individui isolati e rancorosi, facile preda dei potenti o dei furbi. Che noi si sia qui insieme, a cercare insieme, a ragionare e a sperare insieme, è dunque una buona notizia o almeno un buon indizio sia per la Chiesa che per la Città.

Per non disperdere il valore di questo nostro convenite è innanzitutto necessario prendere sul serio ciò che è emerso dalla prima fase del nostro cammino assembleare, ovvero le risposte ai quesiti dell’Instrumentum laboris.

Lo scopo di questo contributo

Questo contributo ha un compito preciso e limitato. Esso consiste in due operazioni. Prima operazione: far emergere i principali elementi comuni presenti nell’insieme dei contributi ricevuti. Seconda operazione: individuare almeno alcuni dei principali nodi da affrontare quando, a cominciare dai lavori di domani mattina, si passerà a quella fase del discernimento che include il momento della scelta.

Pertanto, lo scopo di questo contributo non è quello di trattare un tema o di sostenere una tesi, ma quello di porsi al servizio di un cammino di discernimento ecclesiale che è cominciato prima e che finirà dopo. Di conseguenza, questo intervento non conterrà alcuna “conclusione”.

Alcune indispensabili premesse

Prima di presentare i risultati delle due operazioni di cui s’è detto è necessaria qualche premessa.

Innanzitutto, va ricordato che una delle difficoltà principali del lavoro di interpretazione e di sintesi che mi è stato affidato dipende dalla forma delle risposte raccolte. Esse non presentano alcun grado di formalizzazione. Non offrono dati da sommare o sottrarre. Ciò aumenta sia la responsabilità dell’analista sia la fragilità del risultato. Il carattere pubblico dei testi sui quali ho lavorato costituisce un buon bilanciamento del rischio appena ricordato.

In secondo luogo è importante chiarire fin da principio che, dopo un confronto, si è ritenuto opportuno concentrare questo intervento su di una lettura d’insieme del materiale ricevuto, il quale consiste nelle risposte elaborate dalle otto diocesi e da tre strutture ecclesiali di livello regionale (il CISM, la Delegazione regionale della Caritas e gli alunni del Seminario Regionale di Assisi). Prospettive analitiche diverse non sarebbero state meno utili di quella effettivamente adottata. Tuttavia si è deciso di utilizzare il tempo a disposizione per far emergere della lettura ecclesiale del momento presente i tratti prevalenti nell’insieme dei contributi ricevuti. Ciò non esclude assolutamente la possibilità e, aggiungerei, la utilità di successive letture dello stesso materiale secondo diverse prospettive.

A posteriori è anche importante constatare che gli elementi comuni tra le diverse risposte esistono e si manifestano con evidenza. Essi rivelano un notevole grado di affinità tra i testi ricevuti, presumibilmente a testimonianza di una notevole affinità tra le rispettive realtà ecclesiali e civili. Una affinità sicuramente maggiore a quella di alcuni decenni orsono. Se alla radice di questa assemblea ecclesiale vi è l’idea che la cooperazione tra le nostre Chiesa deve tornare a crescere, allora – per lo meno dal punto di vista sociologico – si può dire che questa è senz’altro una prospettiva realistica. Ciò ci costringe a discutere una ipotesi: le ragioni del declino della cooperazione ecclesiale in Umbria a partire dagli anni ’90 potrebbe dipendere innanzitutto dai modelli cui si è ispirato l’esercizio della responsabilità nella Chiesa a tutti i livelli.

In terzo luogo è il caso di spendere una parola su di un punto molto delicato. Non affrontarlo rischierebbe di compromettere la comprensione e la successiva utilizzazione di questo contributo. I testi pervenuti riflettono la coscienza di otto Chiese particolari che vivono serie difficoltà pastorali. Non si tratta solo della insuperabile condizione di crisi in cui la Chiesa ed i cristiani si troveranno sempre sino alla parusìa. Si tratta invece del sommarsi a questa degli effetti di scelte e di condotte che potevano essere diverse. Di fronte al quadro non roseo che le risposte ci offrono, a molti di noi verranno in mente singoli casi (persone, gruppi, parrocchie, uffici, esperienze ecclesiali di vario genere) che invece manifestano grande vitalità. Potremmo allora compiere l’errore di contrapporre questi singoli casi al quadro assai critico che stiamo per condividere. Il compito di questo contributo è quello di rappresentare i tratti principali della situazione: le eccezioni, proprio perché tali, non sono in grado di mutarlo. L’errore di contrapporre quadro generale ed eccezioni comprometterebbe in modo grave il nostro compito e potrebbe persino generare o coprire degli alibi. Un tale errore va evitato assumendo tutti un atteggiamento corretto. Il quadro che stiamo per ascoltare non esclude che vi siano eccezioni, le quali, appunto, restano eccezioni. Dobbiamo allora essere molto bravi nel trattare le eccezioni. In sede analitica le eccezioni, appunto perché tali, non hanno un peso sufficiente per modificare il quadro generale. In sede pratica, al contrario, le eccezioni sono molto importanti: possono offrire una indicazione circa il modo per uscire dalle difficoltà, possono offrire spunti per una soluzione da generalizzare. Se debitamente contestualizzate, le eccezioni rivelano più facilmente o la loro effettiva potenzialità positiva oppure una loro natura di eccezioni solo apparenti. È dunque ovvio che la prima delle due operazioni richieste, la indicazione di tratti prevalenti nella lettura ecclesiale del presente, non potrà e non dovrà concentrarsi sulle eccezioni.

Ultima premessa. Franchezza ed onestà non mancano nelle risposte ricevute. Mi permetto allora di dire che la bella testimonianza che offrono questi testi dovrebbe spingere ciascuna e ciascuno di noi a svolgere bene il proprio compito.

I tratti prevalenti delle letture ecclesiali del momento presente secondo la traccia dell’IL

Nel dar conto dei risultati della prima operazione si è ritenuto conveniente seguire l’ordine proposto dall’IL.

1. Il primo gruppo di questioni verteva sullo stato della appartenenza ecclesiale.

1.1 In pochi altri casi è possibile constatare un consenso altrettanto unanime tra le risposte provenienti dalle diocesi e dalle tre istituzioni di livello regionale che hanno fornito un contributo (CISM, Caritas, alunni del Seminario regionale). Nelle nostre Chiese la partecipazione religiosa si rivela al calo in ogni sua forma. Questo calo è una tendenza non recente e molto marcata. Inoltre, la partecipazione religiosa, in primis la partecipazione alla messa, non solo cala, ma si fa anche più fragile e più discontinua. Essa risulta sempre meno rilevante per le altre dimensioni della vita. Andare o non andare alla messa fa poca differenza quando si osserva il resto della vita individuale e sociale.

Tutte le informazioni scientifiche a nostra disposizione confermano questa impressione. Durante gli ultimi due decenni nella nostra regione i “praticanti regolari” sono scesi di oltre un quarto, altrettanto quelli saltuari (Multiscopo, Istat). Di un quarto sono diminuiti i preti diocesani in servizio (ICSC). Oggi, in Umbria, i preti diocesani in servizio nati in questa regione e con al massimo 40 anni di età sono 31. I matrimoni celebrati con rito religioso sono calati di quasi il 40% e sono oggi meno della metà del totale (Istat). Nel frattempo, separazioni e divorzi hanno conosciuto un incremento notevole. Di quasi il 10% è calato il numero dei giovani che alle superiori si avvalgono dell’IRC (OTV). Di quasi il 20% è calata la quota di umbri che firma per destinare alla Chiesa cattolica l’”8/1000” (MEF). In breve: non solo si partecipa meno alla messa ed alla vita ecclesiale in genere, ma cala anche la quota di coloro che si dicono “cattolici”. Questa tendenza, certamente non solo umbra, ha però nella nostra regione ritmi ancora più elevati della media nazionale e più elevati di quello che ci potremmo aspettare sulla base di altri parametri.

I testi di alcune diocesi affermano che una certa influenza negativa la avrebbero esercitata le vicende giudiziarie (locali e non) che hanno visto protagonisti ecclesiastici e laici impegnati nelle strutture ecclesiali.

Di tutto questo è riflesso anche il radicale mutamento nella percezione della Domenica.

In qualche caso viene stigmatizzato il tentativo di porre argine alla crisi della appartenenza offrendo a qualche laico responsabilità pastorali senza adeguato discernimento, sicché alla distorsione della nozione di apostolato dei laici viene a sommarsi il danno di un cattivo servizio pastorale.

Sin da principio emergono due elementi che risulteranno costanti ed evidentemente assai collegati: la scarsità di laici adulti convinti, forti e ben formati e la ancora maggiore gravità della situazione con riferimento ai giovani.

1.2 Oltre a calare di volume ed a perdere di rilevanza extra-religiosa, la appartenenza ecclesiale risente di una elevatissima e crescente frammentazione. A cause storiche ben note, di recente se ne è aggiunta una nuova. Un vero e proprio consumismo religioso non solo è dilagato, ma è stato assecondato dalla azione pastorale. Dalle risposte raccolte l’arcipelago di gruppi, movimenti, santuari, feste patronali, modalità e luoghi di culto i più vari, viene giudicato un fattore di frammentazione del tessuto ecclesiale e una minaccia al regime di comunione. I criteri di discernimento delle aggregazioni ecclesiali che la Conferenza Episcopale Italiana aveva formulato negli anni ’90 sembrano essere ignorati, sino al punto di venire rimossi o tranquillamente contraddetti.

Merita di essere ricordata la coscienza di tutto questo espressa dal documento dei religiosi umbri. Lucidamente vi viene riconosciuto il rischio che i loro santuari finiscano non per arricchire, ma per frammentare la vita diocesana e chiedono che a questa deriva ci si opponga tutti insieme. Parimenti chiara è la denuncia di questa dinamica di frammentazione che viene dagli alunni del Seminario Regionale.

Le risposte ottenute documentano un paradosso. Proprio gli attori cui più spesso si affida la cosiddetta “nuova evangelizzazione” o il cosiddetto “primo annuncio” sono quelli il cui stile incrina e spezzetta la vita ecclesiale. In particolare, vengono segnalati due elementi. (i) La stagione delle vivaci polemiche intra-ecclesiali degli anni ’70 e ’80 è tramontata. Gli attori di questo nuovo pluralismo religioso intra-cattolico danno vita piuttosto a cammini paralleli. (ii) Oltre a ciò, spesso si segnala che qualche ufficio pastorale (ad es. le “pastorali giovanili”, ma non solo quelle) tende ad assumere le forme di un cammino tra altri cammini, di un gruppo tra altri gruppi, con l’effetto non di moderare, ma di aumentare la frammentazione ecclesiale.

Anche in questo caso, le valutazioni raccolte ben si conciliano con i dati che la letteratura scientifica ha da tempo messo a fuoco. Basti pensare al fatto ben documentato di gli attori del pluralismo religioso intra-cattolico che normalmente formano un proprio clero o lo arruolano.

Infine, spesso si segnala che la “unità pastorale” (o equivalenti) non è in grado di contrastare questa tendenza alla frammentazione.

1.3 Molte delle risposte mettono in luce la bassa qualità delle celebrazioni liturgiche ed innanzitutto di quella delle messe. (Sono solo due le diocesi che parlano di una situazione diversa e migliore.)

In prevalenza se ne indicano due cause. La prima è un perdurante clericalismo espresso anche dalla cooptazione di laici in funzione vicaria o ausiliare del clero e in alternativa al riconoscimento ed alla valorizzazione del ruolo della intera assemblea nella azione liturgica. La seconda causa consiste nella fusione di “vecchio” clericalismo e “nuova” indulgenza nei confronti del consumismo religioso. Di qui anche una comprensione psicologistica della “gioia del Vangelo”. In modo molto lucido un testo parla di continua oscillazione della liturgia tra “sciatteria e spettacolarizzazione”, oscillazione della quale il prete è il primo responsabile.

Nelle condizioni date, la numerosità delle celebrazioni della messa non giova affatto alla qualità liturgica di queste. Inoltre, lo scadimento della qualità liturgica delle celebrazioni della messa lascia spazio ad un appannamento del primato di questa rispetto alle pratiche devozionali.

Al sociologo non resta che osservare che questo convergere di “vecchio” e “nuovo” è tutt’altro che casuale, avendo quest’ultimo molte affinità ed anche vere e proprie radici in quello. È storia, del resto, che in Umbria è sempre arrivato attenuato ed in ritardo ogni moto di riforma ecclesiale post-tridentina ed ogni moto di risveglio del laicato. Purtroppo la ricezione del Vaticano II ed il rinnovamento dell’associazionismo laicale e dell’apostolato dei laici non hanno fatto eccezione.

1.4 Tra le spiegazioni spesso addotte in riferimento alla crisi della appartenenza ecclesiale vi è senz’altro quella del calo numerico e dell’invecchiamento del clero.

Ciò però obbliga ad affrontare una domanda: dare un ruolo tanto importante alla quantità di preti non significa restare ancora interni a quel modello storico di organizzazione ecclesiastica che sembra non avere futuro?

1.5 Un ulteriore elemento emerge con forza, con la parziale eccezione costituita da due diocesi. Nell’insieme il clero delle nostre Chiese appare ancora distante dal testo e dallo spirito della Evangelii gaudium.

2. Il panorama appena ricostruito si conferma e si arricchisce di dettagli quando si passa alla analisi delle risposte relative al rapporto tra adulti e fede.

2.1 Per giudizio unanime il cuore della crisi va ricercato qui. Quando l’età chiama ogni persona ad assumere scelte più frequenti e più difficili ed all’esercizio di responsabilità più esigenti, la fede sembra essere sempre meno in grado di sostenerle e di orientarle, la forma reale della vita ecclesiale si rivela non adeguata a sostenere e ad essere animata da persone che vivono una condizione di umanità piena e matura. L’area degli evangelizzati appare in costante contrazione e – anche tra i battezzati – quella che si chiama evangelizzazione raramente viene fondata sull’ascolto della Parola (illusoriamente sostituita da una miriade di occasioni, sussidi o tecniche). Semmai, a giudizio dei nostri testi, quello che sembra più duro a morire è il vecchio modello di religiosità. Esso, si badi, non esercita una superiore capacità di orientamento nelle scelte e nelle responsabilità della vita. Semplicemente si esprime in forme esteriori innocue, ma culturalmente più radicate, le quali, per questa ragione, scompaiono più lentamente. (Ciò spiega anche perché ad esse di preferenza si rivolgano, per abusarne, altri attori sociali: da quelli politici a quelli dello spettacolo.)

2.2 I testi ricevuti rappresentano una tipologia di cattolici abbastanza semplice e chiara: devoti, settari ed ordinari.

Le virtù potenziali di quest’ultima categoria sono bilanciate – in negativo, purtroppo – dalla carenza di formazione (liturgica, catechetica, culturale, ascetica, in una parola: spirituale), dalla carenza di itinerari stabili quali quelli che giusto 50 anni fa il Documento base per il rinnovamento della catechesi aveva disegnato. La proposta ecclesiale rivolta agli adulti sembra in prevalenza quella che alcuni sociologi chiamano “religione a bassa intensità” (un insieme di devozioni senza relazione con il resto della vita e delle quali l’individuo dispone a piacimento). Da parte di alcune diocesi si dice esplicitamente che non vi è nessuna proposta organica e stabile per adulti.

Stando alle dichiarazioni raccolte (con l’eccezione di una diocesi), compare qui di nuovo quello che è stato definito il “paradosso del primo annuncio”. Cammini, gruppi, tecniche, movimenti, uffici pastorali, ed una quantità di iniziative e di eventi sui quali si investe nella speranza di trovarvi la soluzione al problema della nuova evangelizzazione o “primo annuncio”, nella larga maggioranza dei casi non favoriscono lo sviluppo di una maturità umana e cristiana, ecclesiale e civile. Essi non appaiono in grado di garantire quello che per tanto tempo aveva garantito l’associazionismo ecclesiale e che ancora, seppur tra ostacoli e difficoltà anche pastorali, è capace di offrire (in particolare di azione cattolica secondo la definizione del punto 20 della decreto conciliare sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem). Per altro si tratta di modalità di offerta religiose tutt’altro che nuove. Esse giungono in Italia dopo essere state a lungo sperimentate ed anche studiate in altre aree europee e americane. (Si pensi, da ultimo, al caso dei “Gruppi Alpha”.)

Questo panorama assai critico non trova smentita, ma conferma e ulteriore spiegazione nel diffuso attivismo pastorale. Esso genera affaticamento e sottrae la lucidità ed il coraggio di scegliere anche andando contro le mode pastorali del momento.

Con franchezza si sottolinea spesso che questa situazione viene aggravata dal diffondersi della figura dell’”operatore pastorale”. Contravvenendo al principio conciliare, secondo il quale ogni impegno pastorale di laici e laiche ha per “condizione” l’esercizio costante da parte degli stessi dell’apostolato tra le cose del mondo (cfr. AA n.16, LG 31, EvN 70), l’operatore pastorale spesso immagina se stesso come estraneo al secolo o contrapposto a questo, imita movenze e pensieri clericali o curiali, si specializza “in pastorale” o peggio ancora fa di questa la propria occupazione. In queste forme l’impegno di laici e laiche nelle istituzioni ecclesiastiche non diviene occasione di declericalizzazione della Chiesa, ma di clericalizzazione del laicato, quando non anche occasione per il sorgere di iniziative in cui il servizio a chi versa in difficoltà cessa di essere la priorità. Ci si trova così di fronte a “mano d’opera pastorale più che ad adulti nella fede”. Due processi avanzano di pari passo: da una parte il prete da ministro (cioè servo nel e del popolo di Dio) diviene leader religioso o burocrate ecclesiastico (a seconda dell’indole) e dall’altra il laico assume responsabilità pastorali non sulla base, ma in opposizione ai propri spiritualmente primari impegni secolari. Non si ricorda più che tra le ragioni per le quali il magistero raccomanda la azione cattolica (AA 20) vi è che, grazie ad essa, i laici e le laiche giungono a collaborare con i pastori non isolati (tra di loro e dal “mondo”), e che questi «collaborando con la gerarchia secondo il modo loro proprio, portano la loro esperienza (secolare) e assumono la loro responsabilità nel dirigere tali organizzazioni e nel ponderare le circostanze ». Come ben si comprende, la questione non è di etichette, ma di sostanza, di sostanza ecclesiale e spirituale.

Se poi si pensa che spesso il modello dell’”operatore pastorale”, o dell’educatore precoce, viene proposto ai pochi giovani che ancora si affacciano alla vita ecclesiale, si può immaginare facilmente quali danni si producano subito e quali ombre vengano proiettate sul futuro delle Chiesa.

2.3 Allo stallo della pastorale o al suo vero e proprio fallimento quasi sempre si cerca spiegazione indicando la non conoscenza da parte della Chiesa e dei cristiani del linguaggio proprio della modernità. Come dire: se padroneggiassimo quel linguaggio, sapremmo comunicare i nostri contenuti di sempre con successo.

È facile osservare che un giudizio del genere, tanto diffuso nelle nostre Chiese – nonostante il magistero del Vaticano II e dei pontefici successivi – implica ancora una comprensione strumentale, tecnica, neutra del linguaggio ed una idea astratta della verità cristiana. Sul punto sarà necessario tornare più avanti.

2.4 Anche in questo caso molti dei documenti ricevuti sottolineano il grave impatto sul rapporto tra adulti e fede che ha la diminuzione di numero e l’invecchiamento del clero, ma anche la sua decrescente formazione e la conseguente incapacità di “leggere i segni dei tempi”. Scrivono i seminaristi: “spesso ci si limita a rimpiangere un passato mai esistito e si finisce con il vivere pervasi da un senso di frustrazione, (fino ad arrivare) a situazioni paradossali in cui alcuni preti anziani “illuminati” sono molto più “aperti” rispetto ai (preti) giovani”.

Questo punto può essere ben sintetizzato dalla sottolineatura della maggior parte dei documenti diocesani del deperimento della qualità delle omelie. Esse a volte fungono da appesantimento ed ostacolo.

3. Non sorprende dunque che il bilancio si facia ancora più critico quando si tratta del rapporto tra giovani e fede. Il punto fermo, per tutti, è che nel distacco tra adulti e Chiesa va cercata la ragione di quello – ancora più grande – tra giovani e Chiesa. Senza giri di parole si riconosce che in alcune parrocchie i giovani si danno come scomparsi per sempre. (Ogni dato a disposizione corrobora queste impressioni e disegna una china negativa che parte dagli anni ’90, ovvero proprio dal momento in cui ci si era illusi che singoli eventi ed un certo stile pastorale avessero aperto prospettive nuove nel rapporto tra Chiesa e giovani.)

3.1 All’amarezza ed al dolore che accompagnano la constatazione della larga rottura tra giovani e Chiesa non corrisponde una analisi approfondita ed eventualmente originale. Inoltre, le nostre Chiese sembrano non riconoscere il ruolo importante che in ogni processo educativo oltre le persone hanno le istituzioni. Sembra essersi affievolita la grande cultura educativa di cui la Chiesa cattolica per secoli era stata presidio e laboratorio. Anche nel campo del rapporto con i giovani, e contro il dettato conciliare, sembra prevalere la fiducia nella improvvisazione. Lo testimonia anche la scomparsa di ogni richiamo all’autorità, il cui esercizio significa anche sanzione e diniego: nessun processo educativo, infatti, si basa sul consenso.

Lo spunto positivo viene invece offerto dalla notazione che qualche volta si affaccia che crisi della crescita umana e crisi della crescita nella fede hanno un profondo legame, che è impossibile anche solo concepire la seconda se non dentro la prima.

3.2 Al centro delle analisi campeggia la critica alle famiglie. Isolata, manifesta l’idea, piuttosto fragile, che l’impresa educativa possa essere svolta da un solo tipo di attore quando non addirittura da due individui (i due genitori).

Lo scarica barile educativo è perfetto: le famiglie delegano la educazione (sempre più alla scuola e sempre meno alla Chiesa), nella Chiesa lo si delega alla famiglia, mentre la scuola educa sì, ma al riparo della pretesa di neutralità dei suoi valori laici.

Colpisce la distanza tra le risposte ricevute e le posizioni conciliari circa l’atteggiamento da assumere rispetto alle relazioni tra modernità avanzata, educazione e Chiesa (cfr. Gaudium et spes, Gravissimum educationis, Optatam totius). Quello che dal Vaticano II veniva letto come opportunità ora viene letto come minaccia, mentre allora si chiedevano più contenuti e maggiore severità oggi di questi accenti non c’è più traccia. Alla base opera la riduzione della educazione cristiana dalla formazione della coscienza e dalla maturazione in umanità alla sola trasmissione di valori.

3.3 Il risultato è che, dopo molti decenni in tutta Italia si è prodotta una situazione del tutto nuova per il nostro paese. Nonostante il gran parlare di annuncio ai lontani, i dati a disposizione dicono che la Chiesa degli eventi e delle “pastorali giovanili” sempre meno raggiunge i figli di famiglie non praticanti, come invece avveniva al tempo in cui, tra l’altro, ben più si investiva nell’associazionismo ecclesiale giovanile.

Con franchezza si ammette che ci si è dimenticati del fatto che, di norma, sono i giovani stessi i responsabili primi della evangelizzazione degli altri giovani. E che si dimentica quale debba essere la severa formazione (anche intellettuale, anche ascetica) che un apostolato giovanile davvero ecclesiale richiede. Una tale formazione non può essere assicurata da singoli eventi né può nascere solo da emozioni o dalla voglia di fare o di farsi vedere. Nelle risposte ricevute si insiste sul fatto che non si educano i giovani all’apostolato proiettandoli prima di una certa maturità umana e cristiana in ruoli educativi né allevandoli in gruppi chiusi.

Ancora una volta le risposte mostrano una grande franchezza e con lucidità esprimono un giudizio molto critico sul modo di operare delle “pastorali giovanili” nonché sulla parrocchie, i gruppi e i movimenti che si isolano. Si denuncia che le “pastorali giovanili” riproducono nei confronti dei giovani quei modelli di “neoclericalismo debole” che già abbiamo osservato nel caso degli adulti. Ai giovani ci si rivolge come fruitori di beni e servizi religiosi e si propone loro lo spazio di una cooperazione subalterna alla gestione di servizi ecclesiastici. Ovviamente, una cosa del genere soddisfa un numero sempre minore di giovani utenti e per un periodo sempre più breve della loro vita.

3.4 La crisi di ricambio nelle fila del clero, dei religiosi e delle religiose ha molte ragioni. Quelle appena esposte non sono le uniche, ma ad esse viene attribuito un peso non marginale.

Si deve anche registrare la mancata distinzione tra il caso del presbiterato e quella della vita religiosa le cui dinamiche vocazionali sono o dovrebbero essere tanto diverse. Ne seguono analisi in cui la questione del celibato assume di fatto una enfasi quasi esclusiva insieme all’idea balzana che il ministero ordinato o la vita religiosa esigano più di altre forme di vita cristiana la “rinuncia di sé”.

4. Anche per quanto riguarda il quarto ambito la risposta prevalente è chiara e diretta: la evangelizzazione di cui siamo capaci non fa i conti con gli affetti se non raramente e con grande difficoltà. Piuttosto essa teme gli affetti, come tutto quello che ha il sapore della libertà e della carne, e ciò nonostante che come i Padri insegnano ed il magistero con loro: la libertà è la prima Grazia e la carne è un dono buono.

4.1 La attenzione delle nostre Chiese viene giudicata come rivolta in modo sproporzionato ai bambini, ad un’età nella quale – per altro sbagliando – gli affetti sono ritenuti meno dirompenti. L’approccio al mondo degli affetti è moralistico e intellettualistico o all’opposto troppo indulgente e complice passivo delle emozioni. Viviamo un’epoca in cui si è rinunciato ad ogni educazione sentimentale e la Chiesa, quando non ci si arrocca nel dottrinarismo e nella pratica della sublimazione, ci si limita a condividere questa china generale che impoverisce e lascia sfiorire l’umanità.

Solo raramente si dà una seria educazione all’amore. Di qui la dilagante estrema fragilità dei legami d’amore dell’età adulta. L’io non cerca pienezza e donazione nell’esperienza della alterità, ma viene orientato ad usarne come strumento.

4.2 Le nostre comunità, nella maggior parte dei casi, sia quando denunciano sia quando indulgono o compiacciono, si rivelano pervase di tabù concernenti la sessualità. Di questi la espressione più diffusa è la istintiva dislocazione del tema degli affetti nell’ambito della famiglia o dell’età della giovinezza, come se gli affetti non fossero dimensione anche di altre esperienze e di altre età della vita. A puro titolo d’esempio, si noti che, da una terra come la nostra, tanto ricca di documenti e monumenti del genio artistico fecondato dal Vangelo, nessun cenno si fa al nesso tra bellezza e Vangelo.

Con chiarezza i nostri seminaristi ricordano quanto è grave e quanto dolore e quanta ingiustizia produce l’ostilità che ancora orienta la maggior parte dei nostri atteggiamenti nei confronti dei fratelli e delle sorelle omosessuali.

Manca quasi del tutto ogni autocritica circa le sofferenze prodotte da comunità ecclesiali sorde od ostili agli affetti.

4.3 Con chiarezza si riconosce che non abbiamo risposte sicure da proporre né sul piano dell’apostolato né su quello più ristretto della pastorale, anche se non sono pochi i tentativi in questo senso. Troppo spesso si cerca di ottenere qualche risultato solo attraverso l’allungamento dei periodi di formazione o di preparazione.

Nelle risposte ricevute evidentemente resta tra le righe che la sordità agli affetti da parte di tanti nella Chiesa misura puntualmente la nostra lontananza da Gesù di Nazareth, dal Figlio di Dio che tutta la nostra umanità ha assunto e redento (cfr. Gaudete in Domino), la stessa umanità che in Lui, per mezzo di Lui ed in vista di Lui è stata concepita. Tale sordità, quando non vera e propria ostilità, misura il difetto della nostra statura spirituale; non è affatto il frutto di una fede troppo spirituale, ma di una vita di fede poco e malamente spirituale. Lo stesso dicasi per il narcisismo anche ecclesiastico con tanta forza denunciato anche dagli ultimi pontefici.

Non è neppure un segnale rassicurante rilevare la diffusa tendenza a ricercare le risposte quasi esclusivamente nella direzione del piccolo gruppo. Così ancora una volta si dimentica che anche le formazioni sociali più grandi e le stesse istituzioni hanno un ruolo insostituibile nella educazione degli affetti.

Raramente si ricorda che la esperienza ecclesiale ed il magistero indicano con precisione che educatori dei giovani debbano essere laici e laiche adulte, di indole temprata dal secolo, ed anche preti, religiosi o religiose, ma a condizione di una maturità umana altrettanto certa.

4.4 Infine, in modo efficace, uno dei testi pervenuti dà voce ad un giudizio unanime: per le nostre Chiese «la Amoris laetitia è una grazia ancora sprecata».

Anche in questo caso, e sarebbe grave non sottolinearlo, le nostre Chiese così stanche e ferite, mostrano però tuttora viva la capacità di accogliere con gioia, quando riescono a riconoscerli, i segni e i doni con cui lo Spirito cerca di continuamente di rialzarle. Chiese stanche e ferite, le nostre, ma non ottuse né tramortite.

5. Mano mano che ci si allontana dalla sfera del rito e della religiosità individuale, le risposte si fanno più brevi e l’analisi meno approfondita. Questo risulta evidente già nel caso del materiale raccolto per il quinto ambito: lavoro e riposo. Qui emerge una conoscenza molto approssimativa della storia recente e della situazione attuale della nostra regione. Il che, in tempi di trasformazione costantemente accelerata, produce effetti negativi di dimensioni ancora più grandi. Spesso sembra che si ragioni neppure sull’Umbria di ieri, ma su quella di qualche decennio fa.

5.1 Il quadro offerto è omogeneo. Della Domenica è mutata la percezione e la esperienza. Oggi, per maggioranza della popolazione, la Domenica è il giorno dedicato agli hobbies e ai consumi. (E’ però ingenuo e sbagliato però credere che prima la Domenica fosse un giorno di festa e di riposo per tutti. Si pensi solo a quanto le Domeniche delle donne erano – e forse ancora sono – più pesanti di quelle degli uomini.)

5.2 Il lavoro è sempre più solo uno strumento, e dunque un peso, e sempre meno una forma di realizzazione personale ed un modo per contribuire al bene comune.

Quando si riescono ad evitare condizioni di impiego al di sotto delle norme, allora il lavoro diventa sempre più stressante.

Trovare lavoro è sempre più difficile (per i giovani e per chi lo perde in età non più giovanile). Per cercarlo l’alternativa è quella di ricorrere a mezzi non convenzionali e sempre più umilianti, mezzi e modi che dalla Chiesa non sempre vengono denunciati e contrastati con chiarezza e coerenza. Questo genere di difficoltà, e non solo queste, alimenta una sempre più diffusa paura del futuro e il disprezzo dello studio.

Delle risposte ricevute colpisce come in materia di economia (e dunque anche di lavoro e di mercato) quasi non vi sia traccia delle grandi acquisizioni magisteriali del Concilio e del dopo Concilio. Si pensi solo agli insegnamenti della Centesimus annus di Giovanni Paolo II sul valore della economia di mercato.

5.3 Corale è la denuncia, già emersa a proposito della sfera degli affetti, del fatto che la fede dovrebbe avere a che fare con ogni aspetto della vita, ma che non è a questa idea del credere che si viene orientati ed educati oggi nelle nostre Chiese.

Credo convenga leggere qualche riga da un documento diocesano dove si parla di lavoro e di economia: “questo è percepito come un problema che interessa molti, che coinvolge le istituzioni politiche e sociali, ma che poco ha a che fare con la comunità ecclesiale e quello che vive e annuncia. Sia chi lavora, come anche chi invece cerca lavoro o si prepara ad entrarvi, difficilmente percepiscono la portata spirituale ed evangelica di questo ambito della vista umana. Purtroppo non si mette in relazione l’esperienza del riposo con quella del lavoro. Sono percepite come due sfere private, che non toccano più di tanto quella della comunità dei credenti. La sensibilità sociale e politica su questi temi non passa per la riflessione credente, ma si riferisce ad ambiti laici ed esterni alla visione evangelica”.

6. Una immagine relativamente migliore viene offerta dalle risposte relative al sesto ambito: “per una fede risanante e consolante le fragilità”.

6.1 Il primo richiamo da raccogliere è quello alla costante evoluzione delle forme di fragilità. Solo il dialogo con gli uomini e le donne di oggi aiuta a non rimanere vittima degli stereotipi e ad essere sensibili al mutare delle ferite che la vita produce.

I religiosi ci ricordano che l’atteggiamento da assumere non è quello “di sani che si prendono cura di malati”. Altri segnalano che alcune fragilità risultano più “scomode” e che con queste la comunità ecclesiale fa difficoltà a confrontarsi: dipendenze, disagio mentale, violenza interna alle famiglie, disagio giovanile, immigrazione. Si legge in un testo diocesano: “A volte paradossalmente siamo noi stessi cristiani a creare fragilità laddove emarginiamo o non accogliamo chi è più povero, chi è di orientamento sessuale diverso, di diversa nazionalità o estrazione sociale. O quando lasciamo sole le famiglie con disabili, con malattie mentali o problemi di dipendenza, gli anziani, i divorziati”. Parole che parlano di limiti ecclesiali, ma anche di una Chiesa consapevole e franca. In altri casi si riconosce un atteggiamento morboso verso le fragilità. In altri competenza e maturità umana non adeguate.

La delegazione regionale della Caritas ci mostra persino con dei numeri che la prima la forma di “fame” che cresce è quella di parola e di dialogo. Dalle diocesi arriva la richiesta di una carità “più intelligente”. Il testo della Caritas Regionale sintetizza bene questo punto: “non è più la pastorale a guidare l’opinione dei fedeli sulle forme di carità, bensì istituzioni e agenzie esterne alla Chiesa”.

6.2 Le nostre Chiese appaiono discretamente aperte e sensibili alle fragilità e sanno di essere riconosciute come tali dalla opinione pubblica.

Ciò naturalmente non implica che non vi siano eccezioni, né, soprattutto, che non si faccia fatica ad aprirsi a fragilità socialmente e politicamente più scomode di altre. Su questo incide anche il clima di montante di disagio e la sua strumentalizzazione in chiave razzista operata in sede politica. La situazione si è ulteriormente aggravata dall’uso strumentale che si fa di simboli religiosi. L’esistenza di deprecabili episodi di primaria ricerca di business da parte di cosiddetti “operatori della carità” non fa che aumentare le difficoltà.

Del resto, credenti dotati di memoria storica non dovrebbero restare sorpresi dal fatto che la amicizia con il sofferente non piace al mondo e che, se tale amicizia non si confonde con il buonismo ipocrita, essa piace ancor meno.

6.3 Le iniziative di condivisione e di cura di fragilità e ferite appaiono davvero tante e viene sottolineato il ruolo primario svolto da molte parrocchie e dalla Caritas nella loro promozione. A quest’ultima viene rivolta anche la richiesta di vigilare sulle possibili degenerazioni della sua missione: la ricerca di benefici materiali o immateriali, l’alimentare una cultura assistenzialista e paternalista, il favorire un atteggiamento di delega da parte del resto della comunità cristiana, la subalternità o la complicità con le amministrazioni politiche.

Altalenante è il giudizio sul grado di collaborazione con le strutture dei comuni e della regione.

6.4 Va registrata anche la fatica a coinvolgere forze giovanili in questo genere di impegni.

Tuttavia il problema più grave è altrove. La delegazione regionale della Caritas lo individua con estrema chiarezza: “è (…) evidente come la “carità della Chiesa” non è collegata, se non sporadicamente, con la vita liturgica e soprattutto catechetica delle parrocchie o delle zone pastorali”.

6.5 Un nodo, infine, dolorosi, anzi: scandaloso, non deve essere taciuto. Si fa fatica a menzionarlo in questo punto del nostro resoconto, ma ciò valga almeno da provocazione. Tra tutte le risposte ricevute non una sola parola viene dedicata alla condizione in cui vivono le donne nelle nostre Chiese particolari e nella società umbra. La parità delle opportunità ed il rispetto di una eguale dignità, per la Città è un diritto, ma nelle Chiese è anche un dovere morale strettissimo. Sappiamo tutti che il traguardo del pieno rispetto della dignità donna nella Chiesa e nelle nostre Chiese è ben lungi dall’essere raggiunto, ma ne taciamo. Quanta deve essere la forza del pregiudizio maschilista che ci abita se essa riesce a ribaltare quella dei comandi evangelici e quella stessa dei numeri che vedono le donne maggioranza ancor più larga nella Chiesa che non già nella Città!

7. Nell’ultima sezione delle risposte ricevute prevale senza difficoltà un giudizio estremamente severo e franco, senza eccezioni: nelle nostre Chiese la responsabilità per il bene comune è sentita molto poco e sempre meno.

Non percepiamo fino in fondo la gravità di questo dato se non lo contestualizziamo nella grave crisi in cui versa da più di due decenni la società regionale: crisi demografica, economica, politica, religiosa, di amministrazione della giustizia, crisi culturale e sociale nel senso più esteso del termine. Di questa crisi i recenti ripetuti terremoti sono icona dolorosa: inclusi gli lunghissimi e colpevoli ritardi e le ingiustizie con cui sono stati affrontati i loro effetti. Tuttavia, il sisma civile che stiamo vivendo ha una potenza maggiore del sisma fisico.

La variazione del PIL umbro tra il 2011 ed il 2016 è la peggiore tra quelle di tutte le regioni italiane. Il calo degli occupati fatto registrare nello stesso periodo colloca l’Umbria all’ultimo posto della classifica nazionala. Il PIL pro capite pone la nostra regione tra quelle meridionali. Il PIL dell’Umbria, però, scendeva già tra il 2001 ed il 2007, mentre cresceva quello del Centro Nord ed anche quello del Mezzogiorno. La crisi del 2007/2008 è dunque intervenuta ad aggravare una crisi già in atto. Mentre questa crisi veniva negata dalle istituzioni regionali e da molte voci delle forze sociali ed intellettuali, essa era invece denunciata con chiarezza da alcune espressioni delle Chiese umbre: una per tutte il Convegno della Chiesa ternana narnese amerina del 2008.

Particolarmente preoccupanti, soprattutto in proiezione futura, sono i bassi livelli dell’economia umbra per tutto quanto attiene ricerca ed innovazione: spesa, prodotto, addetti. Quasi il 20% degli umbri con una laurea è disoccupato e nel 2016 la crescita degli occupati con questo titolo di studio ci relega al penultimo posto tra le regioni italiane.

Qualcosa di simile si verifica sul versante della spesa (sul territorio) per consumi delle famiglie (residenti e non). A partire dal 2009 il valore relativo all’Umbria si distacca sensibilmente e sempre di più da quello medio del Centro Nord Italia, sul cui livello si era invece mantenuto sino a quel momento.

Tutto questo, e tanto altro, non si è verificato nonostante, bensì con il concorso attivo delle istituzioni e delle politiche regionali. La Amministrazione Regionale ha fatto un uso prevalentemente assistenziale dei fondi europei (basti pensare che appena il 10% è stato destinato a ricerca ed innovazione) ed ha sviluppato politiche istituzionali conservatrici e centralistiche. Ormai, anche da parte di voci insospettabili, si ammette che tra gli anni ’90 ed i primi anni 2000 l’economia regionale ha visto crescere il settore pubblico al punto di mutare i propri connotati. Nello stesso periodo diverse imprese umbre hanno preso a privilegiare la relazione con il potere politico.

Di fronte ad un quadro del genere è impossibile non constatare con preoccupazione che sulla scena regionale non vi sono attori politici significativi né organizzazioni rappresentative di interessi economici credibilmente intenzionati a ribaltare questa tendenza ed a modificare questo stato di cose. La quasi totalità degli attori economici e sociali chiede ancora più protezione alla politica e pressoché senza eccezioni gli attori politici promettono una presenza ancora più diffusa della politica nella economia e nella società. Poche anche le voci ecclesiali che escono dal coro, sebbene il magistero sociale della Chiesa, quello ad esempio che invoca la “sussidiarietà orizzontale”, ci imporrebbe di farlo.

La maggioranza dei cattolici e delle comunità ecclesiali umbre, però, si disinteressa sempre più al bene comune, turisti incoscienti di un Titanic, con l’aggravante di essere stati in misura non piccola ed a lungo spettatori silenti e complici, se non coprotagonisti od almeno commensali, di capitani e capitane che hanno guidato al declino questa regione e le sue città, capitani e capitane che, diversamente da quelli del Titanic, non sono affondati insieme alla loro nave.

7.1 Il giudizio appena riportato è tanto unanime e tanto netto da non richiedere molte altre parole. La definizione che nella assemblea ecclesiale regionale del 1980 fu proposta da Antonio Nizzi, secondo cui la nostra somigliava ancora troppo ad una religiosità “etrusca” (ipnotizzata dal culto dei morti), o quella più recente che parlava di “devozionismo protetto” (subalterno e compiacente i potenti e le loro ingiustizie), appaiono oggi ancora più adeguate di quanto già lo fossero al momento in cui furono formulate.

Anche in questo caso, però, almeno possiamo rilevare che questo stato di cose non è taciuto dalle nostre Chiese. È invece ammesso con una franchezza che manifesta ancora la possibilità di una inversione di marcia.

7.2 Se spostiamo la attenzione dalla descrizione della situazione alla manifestazione degli intenti testimoniata dalle risposte raccolte, è allora inevitabile indicare due elementi di grave debolezza.

Il primo è costituito da una fiducia assoluta nella formazione: nelle scuole di politica, o simili, come strumenti adatti, da soli, a fronteggiare la crisi.

Fra un attimo torneremo a dire quanto è diffusa e grave la ignoranza delle analisi scientifiche, del dibattito pubblico e della conoscenza del magistero sociale della Chiesa. Ancor prima però va rilevata la ingenuità e la sterilità dell’idea che una qualsiasi deficienza in sede di prassi possa trovar rimedio nel solo ricorso alla formazione.

Pensare che formazione e prassi debbano semplicemente succedersi nel tempo non è solo ingenuo, ma testimonia anche un modo di pensare la fede caratteristico di una parentesi che il Vaticano II avrebbe dovuto chiudere.

Questo modo di pensare implica – basti un esempio: tratto dalla realtà politica – la illusione, speriamo non l’ipocrita scusa, che le organizzazioni e le istituzioni che strutturano questo ambito non aspettino altro che adeguarsi ai desideri di un individuo ben formato. La realtà è che la politica umbra – per stare all’esempio, ma per l’economia o per altri varrebbe lo stesso – non vede affatto presenti pochi cattolici, ne vede invece molti e molte, e sempre più numerosi, ma di una visibilità inversa alla rilevanza: tanta visibilità e poca rilevanza. In verità si è dimenticato, o si fa finta di dimenticare, che per far politica serve sì formazione, ma anche organizzazione e poi cultura politica ed elaborazione programmatica. Ciò in tempi di legittimo pluralismo politico dei cattolici e di democrazia compiuta è ancora più vero di quanto non fosse al tempo della DC e richiede una comunità ecclesiale non che delega, né che si intrufola (secondo il misero e meschino paradigma di “Todi”), ma che incalza i laici e le laiche sui doveri del loro proprio apostolato. Altrimenti, cattoliche e cattolici isolatamente impegnati in politica non sono altro che “indipendenti di …”, infinitamente a disposizione di qualsiasi cosa, e magari anche pedina di scambio tra poteri politici ed interessi ecclesiastici.

Il materiale inviato dalle diocesi segnala con lucidità che questa estraneazione progressiva dei credenti dalle responsabilità per il bene comune matura non nonostante, ma spesso tra le altre cose anche a causa delle forme alle quali viene affidato il cosiddetto “primo annuncio”. Se si scelgono iniziative e cammini solo per le emozioni che suscitano e per il gradimento che raccolgono, è ovvio che da esse non ci si può attende quella maturazione della coscienza, della cultura, della energia, della pazienza, del dialogo, della capacità di associarsi che servono per l’esercizio delle responsabilità nei confronti del bene comune, di quelle politiche e delle altre. Si legge nel testo di una diocesi: “Questi cammini aiutano a crescere e maturare nella fede ma spesso non porta(no) ad un’attenzione operosa verso l’altro che viene talvolta considerato un ostacolo al nostro benessere (…). Tutto questo genera cristiani chiusi, soli, interdetti ed immobili”. In un’altra risposta si legge: “La dottrina sociale della Chiesa è praticamente ignorata e quando si tenta di fare qualcosa su questo ambito non si riscuote molto successo. (…) Non siamo abituati a fare una lettura del territorio che continuamente cambia per vedere cosa rispondere, avendo una visione ampia delle problematiche”. Sicché, è ancora un’altra diocesi che scrive, nelle nostre comunità “si naviga tra rigurgiti nostalgici degli anziani e indifferenza quasi generalizzata dei giovani”.

7.3 L’altro elemento di grave debolezza è la quasi completa mancanza di ricezione del rinnovamento dell’insegnamento sociale della Chiesa che il Vaticano II ha intrapreso e che i pontefici successivi hanno sviluppato.

Questa ignoranza del magistero, difficile trova un altro termine, si manifesta in concessioni ingiustificate allo statalismo o all’assistenzialismo, al corporativismo addirittura, e prima ancora si manifesta nella grave e pressoché unanime comprensione del bene comune come compito proprio ed esclusivo della politica. Questo assunto, sinceramente creduto e ripetuto come fosse un perno del magistero, è invece esattamente il nodo scorsoio del modo cattolico di interpretare la vita sociale che il Vaticano II ha rimosso dalle radici. La politica è solo uno dei modi, indispensabile e parziale, di contribuire al bene comune.

Quella cultura “popolare” nel senso sturziano del termine, ovvero democratica e liberale, fatta di amore per la forma repubblicana e per ciascuna delle sue istituzioni (non da ultimo il mercato, la famiglia, la libertà religiosa e non la laicità) che i cattolici erano riusciti a inscrivere nella Costituzione italiana quando ancora il magistero della Chiesa li contrastava, sembrano ora, dopo essere stati rinnovati e proclamati dal magistero della Chiesa, essere stati dimenticati dalle nostre comunità sino a risultare quasi ignoti persino al laicato. In un secolo la situazione si è completamente ribaltata, la base ecclesiale e lo stesso laicato risultano ora arretrati, e di molto, rispetto al magistero ufficiale della Chiesa.

È come se tutti avessimo semplicemente smarrito la coscienza del valore della sussidiarietà orizzontale e della forma poliarchica del bene comune. È come se avessimo defezionato da quella seconda via della carità, pari per importanza alla prima, che Benedetto XVI definiva via istituzionale alla carità (CV n.7). Sicché, in misura largamente prevalente, la nostra responsabilità per il bene comune si riduce al vivere attimi di compassione per qualche emergenza (soprattutto se amplificata dai media) e per il resto ad una delega passiva alla politica o agli “specialisti” della Caritas (la quale, però, non sempre si mantiene alla dovuta distanza critica dalla morsa suadente dei potentati locali politici e non). Da difensori ed anime della civitas (in cui il bene comune è opera sempre provvisoria ed anche-politica), quali furono i nostri avi e tanti santi tra questi, siamo divenuti improvvidi sostenitori della polis (in cui il bene comune è affare solo-politico), dimentichi che il futuro oggi comincia dalle città e dalle loro reti, non dagli stati e meno che mai da quei sub-stati che sono divenute, ma non dovevano essere, le Amministrazioni regionali.

Nodi” da sciogliere, o per lo meno da affrontare

È ora il momento di provare ad individuare alcuni nodi problematici di fondo, i quali debbono essere affrontati qualsiasi sia il punto dell’orizzonte appena ricostruito dal quale il nostro discernimento intenda prendere le mosse.

Dobbiamo però chiederci subito come questi nodi vadano affrontati. Chi infatti lo facesse in una prospettiva esclusivamente dottrinale, mancherebbe completamente il compito di questa assemblea.

Alla luce del magistero, infatti, e non di rado del solo Codice di Diritto Canonico, questi nodi potrebbero essere sciolti senza troppa fatica. Una adeguata chiarificazione dottrinale, però, non è la fine, ma l’inizio del compito di discernimento che ci siamo dati. La prospettiva secondo la quale operare il discernimento, infatti, include senz’altro quella dottrinale, ma di questa è più ampia e più profonda. Ciò che dobbiamo chiederci, infatti, non è solamente quale sia “la risposta giusta”. Essa, infatti, è tanto chiara in teoria quanto nei fatti divergente dalle prassi sulle quali le nostre Chiese con coraggio hanno richiamato la attenzione di loro stesse. La domanda che dobbiamo farci è perciò: perché facciamo quello che facciamo, spesso con cocciutaggine e nonostante le evidenze dottrinali e pastorali del tutto contrarie? Oppure, ma è la stessa cosa, possiamo chiederci: dove si è fermata e perché la ricezione del Vaticano II nelle nostre Chiese? Chi e cosa ha ostacolato o deviato la ricezione del Vaticano II?

In breve, la domanda è: perché facciamo così fatica a guardare il “campo” in cui è nascosto il “tesoro”? Perché facciamo fatica a riconoscere il “tesoro”, ovvero il Regno ed i suoi inizi? (Cfr. Mt 13, 44.)

La risposta a questo interrogativo, per la fortuna di chi parla, non è affidata a questa relazione, ma in prima battuta a voi, al vostro discernimento e poi a quello che seguirà queste due giornate. A questa relazione è affidato un compito, un ben più semplice, quello di evidenziare almeno alcuni dei principali “nodi” da risolvere, od almeno da affrontare.

Dunque, da una considerazione d’insieme, a me pare che i principali “nodi” da affrontare siano quattro.

  1. Primo “nodo”: uno sguardo troppo stretto

Quella che emerge dalle risposte è spesso una prospettiva angusta. Con tutti i suoi limiti, ve ne offro una immagine: per oltre l’80% dello spazio che occupano, le risposte richieste ed ottenute si concentrano su porzioni di realtà relative ai riti ed alla sfera individuale nel senso più ristretto del termine. Tutto il resto, tutto il resto della vita e della fede (la vicenda politica o quella economica, ad esempio, così come le grandi dimensioni dell’interiorità) non prende neppure il 20% dello spazio occupato dalle risposte. Ricondurre questo dato all’IL non dissolve il problema, chi rispondeva, infatti, non aveva vincoli di spazio.

La nostra vita di fede non ha il respiro della vita intera, la nostra vita ecclesiale non ha il respiro della intera vita della Città. Le risposte per un verso lo testimoniano e per altro verso lo denunciano.

In triste contraddizione con l’esordio programmatico della GS, ci sarebbe da riconoscere che vi è molto di genuinamente umano che non trova eco nel nostro cuore (n.1), vi è molto di cui non ci assumiamo la responsabilità e che anzi scansiamo. In particolare, il fatto che il laicato cattolico abbia per carattere specifico della propria vita ecclesiale le cose del secolo (cfr. LG 31, e che il compito del clero sia quello di essere a servizio di un suo cammino libero ed ordinato verso la salvezza, cfr. LG 18) non è ignorato, almeno dai più anziani, ma è ricordato con nostalgia o come auspicio. Ai giovani, invece, per lo più pare non sia stato insegnato. Da queste pagine sembrerebbe che carne, lacrime, sangue e conflitti del secolo tendano a non essere assunti nella fede e nella Chiesa, come dovrebbero, ma a sfuggirne. I religiosi e le religiose, poi, troppo spesso vengono ancora scambiati per uno «stadio intermedio tra clero e laici» (LG n.43), nonostante il monito della LG: «né pensi alcuno che i religiosi con la loro consacrazione diventino estranei agli uomini o inutili nella città terrestre» (n.46). Questa è la misura reale del loro contributo alla evangelizzazione ed alla vita della Chiesa e svela la portata delle loro opere individuali e collettive, questo ci fa comprendere quanto sbagliamo quando pensiamo che le religiose abbiano e siano qualcosa in meno dei religiosi e quanto sia grave che le religiose stesse a volte siano spinte a pensarlo.

Al nostro sguardo stretto sfugge molto di quanto avviene fuori delle sagrestie e dalle curie o di quanto non altera i nostri umori e i ritmi delle nostre devozioni individuali, di foggia antica o recente. Né basta che qualche volta il volgersi al “fuori” venga piamente raccomandato come un “dopo”, come un meritevole “secondo tempo”. Insegna ancora la GS (nn.3-4) che, «per svolgere il compito suo proprio», «è dovere permanente della Chiesa scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo». Senza di che la Chiesa semplicemente manca per intero alla propria missione e non solamente alla sua seconda metà. Scriveva von Balthasar: «è la storia che strappa luce al Vangelo».

Quando tante delle risposte pervenute indicano come colpa principale la non conoscenza da parte nostra dei linguaggi della contemporaneità, in realtà (e a prescindere dalle intenzioni) non ammettono una colpa, ma compiono una ritirata strategica, fuorviante per giunta. Ogni linguaggio, infatti, non è altro che la espressione di una cultura e di un momento storico: non possiamo apprendere quello senza condividere questi. Se crediamo di sapere cosa dire, ma di non sapere come dirlo, mentiamo o ci illudiamo, perché è solo nel linguaggio del tempo e del luogo che ci sono stati dati da vivere che possiamo ricomprendere ciò che crediamo e annunciare ciò che confessiamo ed abbiamo ricominciato a comprendere. La Chiesa ed i cristiani hanno sempre parlato lingue non loro e, parlandole, le hanno sottoposte ad una torsione creativa. Questo è l’unica officina della grande Tradizione cattolica: il succedersi di mediazioni, il deposito delle quali è sempre luce, forza e norma per una nuova mediazione fedele, insieme inevitabile e provvidenziale. È in questa Tradizione che svolgono il loro ruolo imprescindibile le Scritture, i sacramenti ed il ministero apostolico con il suo patrimonio. Non si parla il Vangelo nel linguaggio di oggi sol perché si apre un profilo su Facebook. Se ci si limita a questo, si rischia solo di alimentare il proprio narcisismo.

È per la prigionia in uno sguardo stretto che siamo diventati complici del declino delle città e della vita civile della nostra regione: del declino terribile della sua economia, della sua politica, delle sue istituzioni scientifiche, dell’ambiente in cui viviamo e di tutto il resto. Non di rado abbiamo addirittura aiutato i potenti a restare sui loro troni. Non sempre abbiamo offerto opportunità ed amicizia agli umili, ma pietà. Non sempre abbiamo messo la nostra parola e la nostra forza a servizio della libertà e delle sue istituzioni.

Il punto, dunque, non è che del mondo di oggi non conosciamo il linguaggio. Il punto – più profondo e più doloroso – è che, praticando uno sguardo stretto, mettiamo la luce del Vangelo sotto il moggio, non cogliamo dove e come Dio stesso sta operando in questo oggi, in questo campo tanto vasto. Riconoscere il Regno che inizia nella storia darebbe fiducia al nostro cammino, luce e forza. Allora per così dire, non resterebbe che aderire al Signore che già agisce nel secolo. Scrive Francesco al n.178 della Evangelii gaudium: «Confessare che lo Spirito Santo agisce in tutti implica riconoscere che Egli cerca di penetrare in ogni situazione umana e in tutti i vincoli sociali: «Lo Spirito Santo possiede un’inventiva infinita, propria della mente divina, che sa provvedere e sciogliere i nodi delle vicende umane anche più complesse e impenetrabili. (…) L’evangelizzazione cerca di cooperare anche con tale azione liberatrice dello Spirito». Questo, e non altro, significa “Chiesa in uscita”. In uscita da noi stessi verso il campo, verso il secolo, non per portarvi un Dio che non ci sarebbe se non arrivassimo noi; ma “Chiesa in uscita” per non restare lontani dal nostro Dio che nel “campo” del secolo e della storia già sta operando il Regno, dal Dio di cui abbiamo accolto la Parola. Dunque, essere “in uscita” innanzitutto perché serve alla nostra fede e solo poi, e a questa condizione, anche a vantaggio di altri che dal nostro cercare e dal nostro gioire per la “perla” trovata, e dal nostro cercare ancora dopo averla trovata, possono trovare conforto e ragioni per riprendere anch’essi a cercare.

Ciò che non abbiamo non sono le tecniche comunicative, ma uno sguardo sul secolo che sappia che e perché questo secolo, proprio questo tempo della modernità radicale, è kairos della fede, tempo opportuno per il credere. L’apostolato in un determinato momento storico non nasce mai, mai, dal rifiuto o dal disprezzo di quel momento. Tutto al contrario nasce dalla coscienza, sempre critica e vigile, che in quel tempo Dio sta agendo. L’apostolato dei laici non nacque e rinacque nella seconda metà dell’800 dal rifiuto della modernità, ma dall’aver compreso le possibilità stupende e terribili e le opportunità per la fede offerte dalla modernità stessa. Nacque da chi condivideva lo spirito di San John Henri Newman. Il cattolicesimo politico moderno non nacque da chi rifiutava la libertà e la democrazia, ma da chi aveva compreso il valore delle istituzioni liberali e democratiche, da chi si batté non contro, ma a favore della economia di mercato e della libertà religiosa. Nacque da chi aveva la forza, la libertà e la fede di Luigi Sturzo e di Alcide De Gasperi.

  1. Secondo “nodo”: uno sguardo troppo corto

Cosa ci starà dicendo il Signore oggi? Quale è la parola che ci rivolge oggi e che – come dice il salmo invitatorio ricordato in principio – noi dovremmo ascoltare?

Una comprensione solo dottrinale della fede ostacola il nostro ascolto, e dunque ultimamente la fede stessa. Con una delle frasi che solo sulla sua bocca sono accettabili, diceva sant’Agostino: Dio può ordinare oggi ciò che ieri vietava. Con una delle sentenze che solo sulla sua bocca erano tollerabili, scriveva von Balthasar: la verità cristiana è come la manna, oggi è fresca, domani puzza. Non c’è fede e meno che mai discernimento cristiano senza vigilanza, senza quel misto di veglia e memoria, senza quel ricordare che consente di riconoscere la parola da obbedire “adesso”. Il vero primo annuncio non ha formule standard, non prescinde dal tempo, ma lo trafigge e lo interpreta, magari lo sovverte. Il vero primo annuncio ha la forma della Parola detta a me oggi, come ci testimoniano i tanti e tra loro diversissimi primi incontri di Gesù, i quali spesso (come insegnava il card. Martini) hanno piuttosto la forma della parabola, che sola (ancora von Balthasar) fa comprendere che la verità cristiana, a differenza di quella atea, ha dentro il tempo.

Il Regno verso cui la parola del Vangelo ci sospinge, il Regno che la parola del Vangelo suscita continuamente, ci avviene non solo “prima” e “dentro”, ma arriva anche da “fuori” e da “davanti”. Ci precede sempre, sia se ci volgiamo al passato sia se ci volgiamo al futuro.

Il secondo “nodo” da affrontare, allora, consiste nel fatto che la maggior parte delle risposte raccolte mostra uno sguardo troppo corto, uno sguardo breve, uno sguardo che fa fatica ad attendere e fa fatica a ricordare. Uno sguardo appesantito, bendato da miti e non sciolto dalla profezia e per la profezia.

È chiaro che uno sguardo stretto, una prospettiva angusta, difficilmente percepisce le cose nuove che il Signore sta operando nella storia ed a volte molto lontano da dove ci siamo rinserrati noi, o che sta operando in forme che non ci sono familiari o proprio non ci piacciono.

Un segno consente di cogliere facilmente lo sguardo corto e breve delle nostre comunità. Nel materiale a disposizione non vi è alcuna traccia (né positiva né critica) di tutto quanto la Chiesa umbra è andata pensando e sperimentando almeno dagli anni ’70 ad oggi. Cosa questo significhi può esser mostrato con un esempio. La già ricordata relazione di Antonio Nizzi alla assemblea ecclesiale regionale del 1980 trattava temi del tutto simili a quelli con cui siamo alle prese oggi e offriva una analisi della realtà ecclesiale regionale della quale la attualità è chiaramente solo una evoluzione. Se nella compilazione delle risposte di oggi noi avessimo tenuto sott’occhio quel contributo avremmo compreso meglio il presente e non saremmo qui a prendere in considerazione soluzioni che non sono affatto nuove, quali ci sembrano, ma che sono state già tentate e già da un pezzo hanno mostrato i loro limiti. Una comunità ecclesiale che riparte ogni volta da “zero” è una comunità ecclesiale destinata a rimanere a “zero”, è una comunità che si condanna a ripetere i propri errori.

Un discorso analogo potremmo farlo per le riflessioni promosse da mons. Pagani a seguito della pubblicazione di quel manifesto della ideologia dominante in regione che fu alla fine degli anni Ottanta il volume Einaudi sulla storia dell’Umbria, potremmo farlo per il volume curato da Angeletti e Armillei sul bene comune in Umbria, per la ricerca di circa dieci anni fa sul giovane clero delle nostre diocesi e per decine di altri lavori di discernimento, incluse lettere pastorali, relazioni per visite ad limina e sinodi diocesani. Di tutto questo non c’è alcuna traccia.

Uno sguardo corto soffoca il discernimento ecclesiale. Corto perché dimentica e corto perché non guarda in faccia e chiama per nome le scelte che incombono. Uno sguardo corto che ha paura delle scelte, ha paura dell’incontro tra fede e libertà (come se la fede potesse vivere a spese della libertà!). È invece solo in ogni singola scelta, ordinaria o straordinaria, che la fede incontra il futuro; è nella scelta, in ciascuna scelta, che il Vangelo può rivelarsi luce e forza, principio e fondamento. Carlo Maria Martini lo spiega con parole lucidissime a commento di un passo della Lettera ai Filippesi (1, 9-10): «prego perché la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza ed in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo». Spiega Martini: «La categoria della scelta o del discernimento è fondamentale per la figura spirituale del laico ed esprime meglio di altre categorie affini il senso di positività e di attenzione al disegno di Dio nel mondo; non è un giudizio immediato e definitivo sulle realtà, che spetta a Dio solo, è un discernimento attento e paziente di come l’opera dello Spirito vivifica e costruisce la Chiesa nel mondo». Ancora: «scelta» è «libertà che si misura e si gioca davanti a Dio». La scelta è quella condizione profondamente umana nella quale forse meglio si vede il futuro, si attende al futuro, si pratica la speranza e effettivamente si ascolta la chiamata ad uscire verso il Regno. Scelta, infatti, non è arbitrio, ma responsabilità, risposta personale non sostituita, ma sostenuta dalla vita ecclesiale e da tutti i suoi doni e ministeri. Questo, per Martini, e per Vittorio Bachelet di cui stava ricordando il primo anniversario dell’assassinio da parte delle Brigate Rosse, è il significato di “scelta religiosa” quella che il laicato di Azione cattolica e tutta la Chiesa italiana operò sulle orme del Concilio tra anni ’60 e ‘70: fare del Vangelo l’orientamento e la forza della libertà.

La fatica con cui adulti veri stanno dentro le nostre Chiese, la assenza o quasi dei giovani dalle nostre Chiese, l’una e l’altra dati che le risposte pervenute denunciano senza inutili giri di parole, non sono altro che la fatica che si fa a vivere la fede e la Chiesa quando arriva il tempo delle scelte più pesanti e più frequenti e quando viene quello delle scelte decisive.

Qui, appunto, si radica la crisi nel rapporto tra Chiesa e giovani. Se la Chiesa offrisse solo intrattenimento religioso, non incontrerebbe e non stabilirebbe mai alleanza con i giovani, perlomeno con giovani veri. Di norma, infatti, anche nella Chiesa i cambiamenti li fanno i giovani. Il giovane Francesco e la giovane Chiara reinterpretarono la fede e la Chiesa in un mondo in cui rinasceva la vita urbana; dei giovani e non degli adulti, nel 1867, fondarono le società della Gioventù Italiana di Azione Cattolica e con ciò cominciarono a risvegliare (è ancora von Balthasar) il “gigante che dormiva”, ovvero l’intero laicato, e così contribuirono come il movimento per la riforma della liturgia a “costringere” la Chiesa a quel cammino che la portò al Vaticano II.

Uno sguardo un poco smemorato e un poco miope, uno sguardo corto, induce ed abitua a ripetere, non a scegliere. Spinge a cercare il contenuto del buon annuncio in un “prima” fuori dal tempo invece che a cercarlo dov’è: nel cuore del tempo presente … come avrebbe detto don Primo Mazzolari: «adesso». Uno sguardo troppo stretto e troppo corto rischia di non cogliere il Regno che arriva dal cuore del presente e dunque non può rendere a questo avvenire del Regno il suo posto nell’annuncio della buona novella, annuncio ogni volta “primo” ed ogni volta “nuovo” perché annuncio di un Vivente.

  1. Terzo “nodo”: uno sguardo troppo basso

Un terzo nodo è costituito da quel paradosso – in realtà una vera e propria contraddizione – che emerge in quasi tutte le risposte e che a più riprese e viene denunciato con sincerità e chiarezza: il futuro della Chiesa vengono affidati a soggetti ed a prassi che spesso frammentano il tessuto ecclesiale.

La stessa cosa viene detta anche in modo speculare. La dinamica inclusiva, tipica della forma-Chiesa ed incarnata da parrocchie ed associazioni ecclesiali, progredisce a fatica; la dinamica esclusiva propria di altre forme di aggregazione raccolte intorno a leadership personali ed a base non territoriale appare più effervescente. Inoltre, le aggregazioni di parrocchie (“unità pastorali” o analoghi) e le “pastorali” diocesane (tipicamente quella “giovanile”), due strumenti concepiti per contrastare le derive di frammentazione ecclesiale, non vi riescono o addirittura le alimentano, mentre al contempo annebbiano la figura del laico e la natura del suo apostolato, vuoi schiacciandolo sul versante del consumatore di beni e servizi religiosi vuoi schiacciandolo sul versante opposto, quello dell’”operatore pastorale”: addetto in ruoli subalterni alla produzione di beni e servizi religiosi (insomma, non molto di più di un “mezzo prete”).

Lo stesso nodo emerge anche in una terza forma. A volte si scrive: va bene il “primo annuncio”, ma serve integrarlo con una più costante formazione. Solo che questa e quello si sviluppano secondo paradigmi non di rado inconciliabili.

Questo “nodo” è il caso tipico nel quale non basta dare una risposta dottrinalmente corretta. Essa ci direbbe che il primo annuncio narrato dai vangeli ha più spesso la forma di una parabola e non quella della esposizione di una dottrina, per quanto sintetica, e che quelle parabole o quei colloqui sono cuciti sulla condizione e sulla storia di ogni singola persona incontrata da Gesù. Secondo i vangeli Gesù non usa mai due volte le stesse parole. La dottrina – memore dello stile che aveva la amicizia generatasi intorno a Gesù – ci ricorderebbe anche che la Chiesa cattolica non può essere ridotta ad una congregation o ad un gruppo “chiuso” in cui prete e i fedeli si scelgono gli uni con gli altri.

La domanda che dobbiamo farci è diversa e più complessa perché quella che ci serve non è solamente una risposta dottrinalmente chiarificatrice. Dobbiamo chiederci perché, secondo i vangeli, a Nicodemo, a Pietro, a Levi, al giovane ricco, alla Samaritana, al funzionario Regio, alla adultera o al buon ladrone, Gesù dice sempre cose diverse e non ripete mai il solito ritornello? E anche: perché la comunità di cui una parrocchia può essere capace, certo meno stretta e “calda”, e più aperta di quella di una sètta, spesso ci sembra una comunità debole? Perché dimentichiamo quanto sia specifica e feconda la formazione cristiana che solo una associazione (!) – e non altre forme aggregative – può dare lungo tutta una vita e perché abbiamo nostalgia o desiderio di altre forme di stare insieme? Che ne della mistagogia nelle nostre Chiese?

Perché dimentichiamo che la pratica fedele delle quattro prassi di cui al capitolo 2 degli Atti (v.42), eucarestia, discernimento della Parola di Dio nelle Scritture e nella storia, carità e preghiera come coinvolgimento della mente e della carne nel credere, non escludono affatto momenti di forte e franco dissenso intraecclesiale, di dialogo e di ricerca esigenti? Dei quali invece gli Atti stessi ci parlano senza scandalo già poche righe dopo quelle appena ricordate.

Non dovremmo sentire come rivolta anche a noi, oggi, la domanda franca e difficile che Gesù rivolse ai due che volevano seguirlo: «cosa cercate?» Cosa cerchiamo? Una Chiesa o una tribù? Una Chiesa o una lobby? Una Chiesa o una loggia? Una Chiesa od un sostituto di un partito, di una famiglia o di un bar che non ci sono più? Abbiamo accettato che i numeri di un tempo non torneranno più? O preferiamo ancora inseguire quei numeri invece che attendere alle cose nuove cui il Signore ci sta chiamando oggi?

Se è una Chiesa che cerchiamo, è alla forma particolarissima di amicizia che Gesù offre e cui ci invita che dobbiamo guardare ed al suo Spirito sempre caritatevole e benevolo, sobrio e libero. Perché tutto questo ci sembra poca cosa?

Porci domande come queste non significa assolutamente mancare di rispetto alle solitudini, alle ferite, alle ipocrisie, alle paure, nostre ed altrui. Significa invece rispettarle, riconoscerle senza vergogna. Significa però anche pian piano guardarle con lo sguardo di Gesù e con lui cercare di scioglierle, di guarirle od anche semplicemente di portarle e sopportarle.

Forse, sbagliando, pensiamo che la evangelizzazione sia una cosa semplice. Però, la risposta della Evangelii nuntiandi di Paolo VI tanto cara a Papa Francesco è diversa: la evangelizzazione è una azione complessa. Dobbiamo avere il coraggio di dircelo. La evangelizzazione non è tecnica né spettacolo. Scrive Paolo VI in quelle righe cui Francesco rimanda: «Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità, è, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa (…). (…) la Chiesa evangelizza allorquando, in virtù della sola potenza divina del Messaggio che essa proclama, cerca di convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l’attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l’ambiente concreto loro propri (n.18). … per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza (n.19)».

Tra l’altro, solo in questa prospettiva la religiosità popolare si manifesta non come simulacro cui inginocchiarsi o, al contrario, come qualcosa da disprezzare, ma come straordinaria occasione da cogliere con generosità, intelligenza, delicatezza e severità. Religiosità popolare che, soprattutto in Umbria, non è solo quella dei residenti, ma anche quella dei tantissimi umbri non residenti e dei tantissimi pellegrini.

Occorre dunque alzare un po’ lo sguardo per cogliere meglio la originalità della comunione cattolica. Uno sguardo basso non ne vede che pochi particolari.

  1. Uno sguardo che non scava abbastanza

Un ultimo “nodo”. Tanto si parla nelle risposte di “gioia del Vangelo”. Se osserviamo attentamente, però, scopriamo che quasi sempre vi si parla della gioia di annunciare il Vangelo, di portarlo. Non della gioia del Vangelo in sé. Se questi due lati non vengono tenuti insieme, la gioia dell’annuncio rischia di essere effimera, sempre esposta al rischio di decadere in narcisismo.

La gioia del Vangelo deve esserci anche nel buio e nel silenzio della nostra stanza, e quando ci guardiamo allo specchio. E se lo specchio rischia di svelarci anche lacrime e vergogna, meglio ascoltarle, illuminarle e spesso anche semplicemente sopportarle con il Vangelo e la sapienza umana, piuttosto che rimuoverle magari anche per mezzo dell’attivismo pastorale.

Conosciamo la gioia del Vangelo? Abbiamo gustato noi stessi la gioia del Vangelo e il Vangelo come gioia? Questa domanda non può essere accantonata. Cosa andremmo in giro a raccontare altrimenti?

Quest’ultimo nodo potrebbe anche essere presentato in questi termini: quanto prendiamo sul serio le nostre gioie umane? Quanto le leggiamo e vi leggiamo la Grazia di Dio? Quanto crediamo che le nostre lacrime e le nostre ferite, le nostre angosce, saranno tramutate in gioia? Quanto siamo capaci di comprendere e vivere anche quei lunghi giorni in cui questo non sembra vero? Scrive Paolo VI nella Gaudete in Domino cui Papa Francesco rimanda: «Soffermiamoci (…) a contemplare la persona di Gesù, nel corso della sua vita terrena. Nella sua umanità, egli ha fatto l’esperienza delle nostre gioie». Egli le ha manifestamente conosciute, apprezzate, esaltate. «La profondità della sua vita interiore non ha attenuato il realismo del suo sguardo, né la sua sensibilità». Ancora. «Queste gioie umane hanno tale consistenza per Gesù da essere per lui i segni delle gioie spirituali del Regno di Dio: gioia degli uomini che entrano in questo Regno, vi ritornano o vi lavorano, gioia del Padre che li accoglie».

Forse abbiamo bisogno di uno sguardo che scava di più in noi stessi e nel Vangelo, nel Vangelo attraverso noi stessi e in noi stessi attraverso il Vangelo … per conoscerlo un po’ meno “per sentito dire”. Forse abbiamo bisogno di temere meno una educazione rigorosa delle nostre coscienze, del nostro intelletto e della nostra volontà, i primi interpellati all’atto di fede (DV n.5).

Questo contributo che sin da principio abbiamo definito “intermedio” non richiede conclusioni di alcun tipo. Semmai, una immagine può aiutare a riassumere i “nodi” che le risposte delle nostre Chiese ci chiedono di affrontare.

Come abbiamo visto, ciò che emerge è un insieme di comunità ecclesiali che mostrano, ma anche che riconoscono, di avere uno sguardo troppo stretto, troppo corto, troppo basso, che scava poco .

… stretto, corto, basso, che scava poco …. Come non pensare, allora, all’invito della lettera agli Efesini (3, 14.16-18) a scoprire tutta la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità della vita e della vocazione cristiana! «Per questo motivo piego le ginocchia davanti al Padre, (…) affinché egli vi dia, secondo le ricchezze della sua gloria, di essere potentemente fortificati, mediante lo Spirito suo, nell’uomo interiore, e faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, perché, radicati e fondati nell’amore, siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo».

Forse possiamo dire che, per affrontare il compito che abbiamo di fronte, necessitiamo di allargare tutte le dimensioni del nostro ascolto e della sua intelligenza. E possiamo dire che, di questa urgenza, anche se in misura non sempre piena e coerente, le nostre Chiese sono già consapevoli.

Aumentare larghezza, lunghezza, altezza e profondità della vita cristiana riguarda tutti nella Chiesa: clero, religiosi e laici. Certo, però, e si scusi questa osservazione banalmente quantitativa e sicuramente approssimativa, se tutti e tutte compissimo anche solo un passo nella direzione giusta, sarebbe il laicato – la parte più grande della Chiesa – a produrre la spinta di gran lunga maggiore nella vita ecclesiale, a spostarne gli equilibri in misura maggiore.

Se, come ripete spesso Papa Francesco, la Chiesa è per sua natura e vocazione una piramide rovesciata, non c’è dubbio che non meno delle altre le Chiese umbre sono piramidi da rovesciare, e potranno essere effettivamente rovesciate solo se anche i laici riconosceranno che il loro ruolo non è quello di stare “in basso”, anche se stare “in basso” ha i suoi vantaggi e procura molte meno seccature.

  • Allargare allungare alzare approfondire i nostri sguardi,
  • prendere con decisione la via del discernimento,
  • vivere ogni scelta secondo la fede,
  • rovesciare le piramidi ecclesiali:

non sono quattro operazioni diverse, ma quattro modi diversi di dire la stessa operazione spirituale, questa sì davvero spirituale.

E allora: rovesciamole queste piramidi! Rovesciamole consapevoli del valore ecclesiale e anche civile di questa unica operazione. Rovesciamole per amore al Vangelo ed alla Città! (Cfr. LG n.1.)

INTRODUZIONE MONS. RENATO BOCCARDO

«Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente. Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù… E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo» (Fil 1, 3-6. 9-10).

Faccio mie volentieri, insieme e a nome dei Vescovi umbri, le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Filippi per dire un saluto di pace e benedizione a voi, cari fratelli e sorelle convenuti dalle otto diocesi della nostra Regione per questa Assemblea Ecclesiale, alla quale recate la testimonianza della fede e della carità delle nostre Chiese.

Un saluto deferente rivolgo alle Autorità civili e agli altri illustri Invitati che ci onorano della loro presenza, manifestazione eloquente dell’impegno condiviso per la costruzione del bene comune a servizio di tutte le componenti della società in cui viviamo.

Come è noto, questo nostro incontro nasce dal desiderio di rispondere all’invito rivolto da Papa Francesco alle Chiese che sono in Italia in occasione del Convegno di Firenze nel 2015, quando disse: ««Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà… Cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni … Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio».

Celebriamo dunque una Assemblea Ecclesiale con l’intento di essere «audaci e creativi nel compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle nostre comunità» (EG 33), affinché la nostra gioia sia piena (cf 1 Gv 1, 4) e la possiamo condividere con gli uomini e le donne della nostra Regione. Perché «essere Chiesa significa … essere il fermento di Dio in mezzo all’umanità. Vuol dire annunciare e portare la salvezza di Dio in questo nostro mondo, che spesso si perde, che ha bisogno di avere risposte che incoraggino, che diano speranza, che diano nuovo vigore nel cammino» (EG 114)».

Il nostro convenire di questa sera, pensato e programmato da oltre un anno, si colloca in ideale continuità con i Convegni regionali dei decenni scorsi ed è stato preceduto a livello diocesano da un lavoro lungo e approfondito, che ci ha permesso di rivolgere alle nostre comunità uno sguardo concreto e fiducioso, per verificare quanto siano abitate della gioia del Vangelo e quanto, per mezzo della loro vita e testimonianza quotidiana, la stessa gioia raggiunga e attraversi la terra umbra.

Si è trattato di una vera esperienza di “sinodalità”, quella raccomandata da Papa Francesco, che ci ha offerto la grazia di incontraci nella gratitudine per il nostro essere popolo santo di Dio e ci ha dato la possibilità di guardare al presente con discernimento e al futuro con speranza. Il frutto del lavoro compiuto costituisce la base del dialogo e della condivisione che siamo chiamati a mettere in atto in queste giornate. Forniranno valido stimolo alla nostra riflessione gli interventi del Prof. Luca Diotallevi, Ordinario di sociologia all’Università di “Roma Tre”, e di Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo di Novara e Vice Presidente della Conferenza Episcopale Italiana. A loro fin da ora, con il saluto cordiale, il ringraziamento vivissimo per l’aiuto prezioso che offriranno al nostro cammino.

Che cosa faremo pertanto oggi e domani? Si tratterà innazitutto di assumere un autentico atteggiamento di ascolto, perché «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare è più che sentire. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo Spirito della verità, per conoscere ciò che Egli dice alle Chiese» (Francesco, discorso per il 50. mo dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015). Occorre dunque assicurare alla nostra Assemblea una dimensione interiore e spirituale, che ci permetta di porci in sintonia con lo Spirito di Dio e con i fratelli. Non dunque un ascolto unilaterale, quale può essere l’acqui sizione di informazioni, di dati e di analisi accurate della realtà, ma un tempo di dialogo, di confronto, di scambio su convinzioni e pareri, anche diversi;  un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare.

E poi – nei “tavoli di lavoro” – bisognerà confrontarci con le domande della vita, con i mutevoli contesti storici e sociali; riflettere sul nostro contributo di cristiani alla società in cui viviamo, sui nostri modi di celebrare, di annunciare e di servire Cristo nel prossimo; esaminare la nostra prassi pastorale alla luce della parola di Dio e della vita quotidiana delle persone. Con l’intento di trovare sintonia nello stile evangelico, sinergia nell’impiego delle forze, simpatia e passione nel guardare la vita della gente. Senza sognare soluzioni facili per una realtà complessa né cedere alla tentazione di diagnosi deprimenti; ma cercando piuttosto di individuare rimedi incoraggianti. Non dunque una operazione di “ingegneria pastorale”, bensì un reale esercizio di comunione fraterna e un atto di autentico amore nei confronti delle nostre Chiese.

Vorremmo individuare processi che, pur nella varietà e nella diversità delle diocesi, possano essere condivisi a livello regionale, per essere comunità incisive e profetiche, propositive e significative, richiamo forte e riferimento bello per le donne e gli uomini del nostro tempo. Infatti, una Chiesa che si limitasse alla sola gestione del “dimagrimento” in atto del proprio corpo istituzionale (diminuiscono i preti, cala la frequenza domenicale, sempre meno sono quelli che si sposano in Chiesa, dopo la catechesi i fanciulli e i giovani se ne vanno…) diventerebbe una Chiesa ben presto incapace di dire parole significative ad una cultura in profonda trasformazione.

Dovremo perciò domandarci come mostrare che la fede è in grado anche oggi di fornire strumenti ed energie per la nascita di una forma inedita di umanesimo, favorendo l’insorgere di nuove esperienze e di nuove pratiche di vita cristiana. Non dobbiamo tanto preoccuparci della tenuta del nostro tessuto organizzativo, ma concentrarci nella ricerca delle modalità e dei luoghi in cui oggi possa prendere forma un’esperienza cristiana in grado di dire il senso della vita, della solidarietà, della cura del prossimo e del creato. E il frutto del lavoro dei 28 tavoli verrà consegnato ai Vescovi perché ne traggano orientamenti e linee concrete per una azione pastorale capace di caratterizzare il cammino delle nostre Chiese.

In questo speciale “mese missionario”, è bello riaffermare che la missione non è un segmento della pastorale, ma ne rappresenta l’anima, il cuore pulsante di cui un cristiano non può fare a meno. La missione è nel DNA di ogni seguace di Gesù, perché lo è stata per  Gesù stesso; è la via ordinaria e quotidiana attraverso cui ogni battezzato realizza la sua chiamata a seguire il Signore e ad annunciare a tutti il suo Vangelo.

Ascoltiamo Papa Francesco: «Pecchiamo contro la missione quando, anziché diffondere la gioia, ci chiudiamo in un triste vittimismo, pensando che nessuno ci ami e ci comprenda. Pecchiamo contro la missione quando cediamo alla rassegnazione: “Non ce la faccio, non sono capace”. Ma come? Dio ti ha dato dei talenti e tu ti credi così povero da non poter  arricchire nessuno? Pecchiamo contro la missione quando, lamentosi, continuiamo a dire che va tutto male, nel mondo come nella Chiesa. Pecchiamo contro la missione quando siamo schiavi delle paure che immobilizzano e ci lasciamo paralizzare dal “si è sempre fatto così”. E pecchiamo contro la missione quando viviamo la vita come un peso e non come un dono; quando al centro ci siamo noi con le nostre fatiche, non i fratelli e le sorelle che attendono di essere amati… Una Chiesa missionaria è una Chiesa che non perde tem po a piangere le cose che non vanno, i fedeli che non ha più, i valori di un tempo che non ci sono più. Una Chiesa missionaria non cerca oasi protette per stare tranquilla; desidera solo essere sale della terra e lievito per il mondo… Coraggio, Madre Chiesa: ritrova la tua fecondità nella gioia della missione!» (cf Omelia nella celebrazione dei Vespri per l’inizio del mese missionario, 1° ottobre 2019).

Ne siamo certi: la nostra Chiesa ritrova la sua fecondità nella gioia della missione. Preghiamo insieme allora, perché sul questa Assemblea il Signore effonda la sua grazia e la sua benedizione.

Chiesa di pietre vive – relazione mons. Franco Giulio Brambilla

Leggendo i testi di sintesi del vostro fecondo lavoro di preparazione, mi è sorto nel cuore di proporre tre semplici istanze per stimolarvi a “immaginare la chiesa” di domani: una Chiesa di pietre vive, una Chiesa estroversa, una Chiesa dai molti volti.

  1. Una Chiesa di pietre vive

«1Allontanate ogni genere di cattiveria e di frode, ipocrisie, gelosie e ogni maldicenza. 2Come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, 3se davvero avete gustato che buono è il Signore»

4Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, 5quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo.

9Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. 10Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia (1Pt 2,1-3.4-5.9-10).

Seguo come canovaccio la Prima lettera di Pietro. Prendo le mosse dalla sezione programmatica della lettera (1Pt 2,1-10). Il brano è molto famoso ed è citato ben 13 volte nei documenti del Concilio Vaticano II. Esso illustra il fondamento del sacerdozio santo di tutti i fedeli in Gesù Cristo, la sua radice battesimale, la sua qualità ecclesiale, la sua finalità spirituale. Gli stili, i gesti e i soggetti pastorali della chiesa sono orientati a far crescere la vita dei cristiani come culto spirituale. Che cosa significa questo linguaggio? Bisogna avere la pazienza di seguire un poco la Prima lettera di Pietro.

Pietro, nella prima parte della lettera, descrive la “chiamata alla santità” fondata sulla nuova nascita (1Pt 1,13-25) e, proprio nel nostro brano, introduce il tema della “testimonianza dei credenti” invitando, lui che è la roccia, a costruire sul fondamento stabile di Cristo (1Pt 2,1-10).

L’Apostolo scrive una lettera avvincente e di rara bellezza che ha esercitato un fascino su molte generazioni cristiane. Lo stile è elegante e ricercato, tanto che lo scritto contiene 61 termini originali e 74 parole che ricorrono solo due volte in tutto il Nuovo Testamento. L’Autore è una personalità singolare, ben inserito nella tradizione di fede, conoscitore della vita liturgico-catechetica e attento alla situazione dei suoi destinatari.

Essi sono credenti della zona centrale dell’Asia minore (oggi Turchia) di cinque province romane, misti tra pagani (la maggior parte) e giudei, evangelizzati da Paolo e dalla Chiesa di Gerusalemme. Questi cristiani vivono in difficoltà, in mezzo a ostilità e diffidenze, oggetto di sofferenze, forse anche di persecuzioni e devono rendere ragione della loro speranza. Lo scopo della lettera è quello di esortare, istruire, incoraggiare i credenti in difficoltà a “stare saldi”. Coloro che sono provati dalla sofferenza vengono invitati a una coraggiosa speranza.

Tre aspetti critici definiscono la situazione dei destinatari: sono in contrasto con la società che li circonda, la conversione ha cambiato il loro stile di vita, portano le domande di sempre: perché i buoni soffrono? Perché Dio mette alla prova? Dov’è Dio in tutte le incertezze della vita?

“Rendete ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15): questo è il leitmotiv della lettera. È rivolto a tutti i credenti, prima ancora della differenza dei loro compiti e funzioni. Semplicemente perché sono credenti, possono e devono diventare testimoni della speranza “viva”. Questo aggettivo attraversa come un filo d’oro tutta la lettera. Se non abbiamo una “fede viva” che ha incontrato in modo personale il Signore vivente e ne attende il ritorno, come si può rendere ragione qui e ora della “speranza viva”? Questa è la sfida che abbiamo dinnanzi per i prossimi anni.

Tutta la lettera, infatti, mira a presentare la vicenda, la passione e la risurrezione di Cristo come sorgente di “speranza viva” (eis elpída zõsan: 1Pt 1,3). Nel capitolo secondo, dove è collocato il nostro testo, Pietro delinea il passaggio da Gesù ai credenti, da Cristo alla chiesa. La chiesa si fonda sulla pietra angolare che è Cristo ed è immaginata come un tempio santo, un edificio spirituale, compaginato di pietre vive che sono i cristiani. In esso si celebra il culto spirituale, la vita dei credenti nella carità gradita a Dio. Questo è il messaggio centrale della lettera. Non si può rendere ragione della speranza viva se non innestati nel grande edificio della vita ecclesiale. Fuori di essa la speranza è solo un azzardo fallace, un tentativo destinato ad andare a vuoto.

Per illustrare la relazione tra Cristo e la chiesa, l’Autore tratteggia tre immagini – la prima materna, la seconda edilizia, la terza storico-salvifica – per dire come Gesù è la pietra angolare della chiesa e come la chiesa è generata da Cristo. Ciò avviene in un crescendo di grande bellezza.

La metafora materna

La prima immagine richiama la generazione. Il capitolo si apre con il tema della nuova nascita del credente e della chiesa. Esso inizia così: «Allontanate ogni genere di cattiveria e di frode, ipocrisie, gelosie e ogni maldicenza. Come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato che buono è il Signore» (1Pt 2,1-3).

Pietro svolge l’immagine materna all’inizio con un’osservazione negativa (v. 1), poi richiama in positivo il desiderio del nutrimento “spirituale” (v. 2) e, infine, indica la sua sorgente inesauribile nella bontà del Signore Gesù (v. 3). Il momento negativo è introdotto, nel testo greco, da un participio con valore di imperativo (Avendo allontanata dunque ogni cattiveria e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza, cioè «Allontanate!»): la nuova nascita, la rigenerazione dei cristiani comporta di lasciare l’uomo vecchio per ricevere il nuovo.

Sono descritti cinque atteggiamenti che minano nel cuore la vita di comunità anche buone. Essi sono la cattiveria (kakía: il gusto di volere gratuitamente il male dell’altro), la frode (dólos: mostrare agli altri ciò che non si è o non si ha); l’ipocrisia (ypókrisis: fingere di avere un’immagine che non si ha), le gelosie (phthónoi: tipiche di ogni comunità, quando si sente l’altro trattato meglio, considerato di più), la maldicenza (katalaliá: dire male degli altri insinuando denigrazioni o cose negative).

Segue il momento positivo, introdotto con la bellissima metafora del latte desiderato dai bimbi (come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza): i credenti e la comunità sono generati dalla parola di Dio. Il desiderio della Parola è descritto con l’immagine dell’avidità con cui il bimbo succhia il latte dal seno della madre. È l’esperienza dei primi cristiani che bramano ardentemente il «genuino latte spirituale» della parola di Dio. È la parola del Vangelo che trasforma, nutre, illumina, purifica, fa crescere e conduce alla vita buona. Nella Bibbia il latte, insieme al miele, indica la promessa di Dio.

Per questo la parola di Dio è viva e personale, anzi è la persona stessa del Signore Gesù: «se davvero avete già gustato come è buono il Signore» (v. 3). La citazione del salmo 34,9 riferita a Dio, ora è applicata a Cristo risorto, speranza viva.

La metafora edilizia

La seconda immagine rimanda alla edificazione. Dalla metafora del latte della Parola, alimento della rigenerazione del credente e della comunità cristiana, il passaggio alla metafora edile è abbastanza naturale. S’introduce il brano famosissimo, che instaura la stretta relazione tra Cristo “pietra viva” e noi che siamo impiegati e sagomati come “pietre vive”.

La relazione tra Gesù e i credenti, tra Cristo e la sua comunità di pietre vive è immaginata come una grande cattedrale (costruzione di un tempio spirituale), in cui si esercita un sacerdozio santo che offre sacrifici spirituali graditi a Dio. Ecco perché c’è la chiesa! Per dire e generare negli uomini il volto di Cristo.

Anzitutto, il bel v. 4 (Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio) afferma che è importante la scelta del fondamento, a cui bisogna stringersi, su cui bisogna edificare. Cristo è la pietra viva, la roccia sicura, che bisogna scegliere: anche se è rigettata dagli uomini, rimane preziosa davanti a Dio. Si noti il bel gioco di significati: è Pietro che parla! Egli è la roccia su cui viene edificata la chiesa, che però rinvia alla pietra angolare che è Cristo, senza della quale la chiesa è costruita sulla sabbia. Pietro e gli apostoli ne sono il segno visibile di unità, mentre Cristo è il fondamento reale del tempio spirituale.

Su Gesù pietra/roccia viva, anche noi come “pietre vive” dobbiamo lasciarci edificare (da Dio), come “casa spirituale”. La casa spirituale è costruita da un tempio di persone. È l’opera di Dio che esige di lasciarsi continuamente posare e sagomare sul fondamento che è Cristo.

Viene, poi, indicato lo scopo (eis) di questa casa/tempio: per un sacerdozio santo. Il termine “sacerdozio” ricorre solo qui e in 1Pt 1,9: la nuova nascita dei credenti fa della chiesa un nuovo tempio spirituale, dove si esercita un sacerdozio santo. È sorprendente che tutte le metafore del culto antico siano ora trasferite al nuovo tempio e al nuovo sacerdozio che è la chiesa, la comunità che offre il culto a Dio: essa offre sacrifici spirituali graditi a Dio. Il servizio sacerdotale necessita che si eserciti un sacrificio spirituale (2,5) con la proclamazione della parola (2,9). Tutto il popolo di Dio è sacerdotale!

La metafora edile arricchisce il passaggio da Cristo alla chiesa di tre elementi nuovi: il fondamento, la costruzione, l’azione. Il fondamento è Cristo pietra viva, la costruzione è il tempio santo edificato di pietre vive, l’azione ha come soggetto il sacerdozio santo e come atto i sacrifici spirituali.

In primo luogo, anche oggi non bisogna sbagliare il fondamento. L’Apostolo ci richiama la fedeltà alla pietra angolare: questa fedeltà si basa su una scelta, che è critica e positiva insieme, critica perché la pietra angolare è “scartata dagli uomini”, positiva perché è “scelta e preziosa davanti a Dio”. Bisogna avvicinarsi a Lui, cercarlo, amarlo, seguirlo, sceglierlo ogni volta come il centro, come colui che sta sopra ogni cosa e che è presente tra di noi quale motivo reale della vita buona.

Nelle nostre comunità, nelle parrocchie, nel rapporto tra di esse, deve emergere prima o poi, meglio se presto, che la ragione della nostra speranza è il Signore! Vi sono persone, vescovi, preti e laici, che sembrano dire con i loro giudizi, i loro gesti, i loro mezzi, che il centro è il proprio io, la realizzazione di sé, un attivismo sfrenato, che trasforma la comunità in una sorta di Pro loco e che sequestra le attività come un piccolo regno in cui primeggiare, lamentandosi poi di essere lasciati soli.

In secondo luogo, la metafora edilizia ci parla della costruzione. Siamo sempre di nuovo “edificati”, “addomesticati” e “ben compaginati” (oikodoméo è un presente continuo) come “pietre vive” (quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale). Come Cristo è scelto da Dio quale pietra angolare, così anche noi siamo scelti, eletti. L’elezione del credente non significa una selezione, un privilegio contro gli altri. L’unico privilegio che il cristiano conosce è quello del servizio e della missione a favore di altri. La scelta di Dio, cioè il dono della fede, dice che nessuno è padrone, ma “servo inutile” (Lc 17,10). Inutile non perché non serva, ma perché lo fa gratuitamente e con cuore libero.

Poi “veniamo edificati” come “pietre vive”. Entrare nella chiesa è un dono: siamo chiamati, scelti e, come la pietra, che è materiale inerte e amorfo, siamo vagliati, sgrossati, sagomati e scalpellati per essere incastrati e compaginati al fine di costruire un edificio spirituale. La “voglia di comunità” che attraversa oggi la nostra società individualista non è solo uno “star bene insieme”, ma soprattutto un “camminare verso il bene” e “facendo il bene”, anzi deve costruire un edificio spirituale, una grande cattedrale dello spirito. Mi ha sempre colpito la forza di questo testo.

Ognuno di noi può pensare alla costruzione di una grande chiesa: un geniale architetto concepisce il suo progetto, un innumerevole gruppo di persone (specialisti, artigiani, semplici lavoratori, ognuno col suo compito, tutti partecipando all’unica impresa) deve concorrere insieme perché sorgano le bianche cattedrali del gotico e le splendide basiliche del rinascimento. Nessuno si lamenta del suo compito, tutti partecipano all’unica passione della costruzione del tempio santo.

Nessuna pietra pensa di essere un tassello inutile, perché non svetta sulla guglia del duomo. Anche i gradini di ingresso sono importanti per introdurre al centro del tempio santo, così come i decori dei capitelli rendono splendente il racconto dell’edificio spirituale. Ogni “pietra viva” ha il suo posto: chi sta presso l’entrata può favorire l’ingresso, chi sta nel portico fa passare dal profano al sacro, chi è nella navata accoglie la vita della gente, chi sta nel presbiterio fa transitare al santo, chi è nell’abside intravede lo sguardo del Cristo benedicente e creatore di tutte le cose. L’architettura del tempio narra la vita della chiesa che raccoglie gli uomini e le donne in comunione e li fa uscire in missione.

Possiamo dire che le nostre comunità siano variegate e dinamiche come le pietre di una grande cattedrale? L’“edificio spirituale” che dobbiamo costruire è la chiesa di persone, è la casa di tutti, ma questo “tutti” non indica un numero generico, ma una foresta lussureggiante di pietre vive diverse, amanti, oranti, speranti. Ed è noto che la chiesa di mura, dalla domus ecclesiae antica alla chiesa romanica, dalla cattedrale gotica alla basilica rinascimentale, dal monumento barocco al duomo neoclassico (come il nostro dell’Antonelli), per non parlare delle chiese del Novecento, si chiama “chiesa”, perché è il luogo in cui si raduna la chiesa di “persone” e le persone che fanno “chiesa” (ecclesìa). Comunità convocata per essere inviata. Non gruppo di prescelti o perché hanno affinità elettive, ma assemblea di coloro che hanno sperimentato misericordia per trasmettere tenerezza e carità.

In terzo luogo, bisogna precisare bene l’azione: l’agire pastorale ha come soggetto un sacerdozio santo per offrire sacrifici spirituali. Non solo il luogo, una comunità di persone, ma anche l’azione, la vita spirituale delle comunità, è decisiva. Il tempio spirituale è per un sacerdozio santo che offre sacrifici spirituali. Con una precisazione essenziale: quel sacerdozio e quei sacrifici spirituali non riguardano tanto le “cose” spirituali, ma sono tutta la vita umana vissuta come “culto spirituale”.

Non si va in chiesa a celebrare il culto per poi tradurlo nella vita. Questo ha già separato ciò che è originariamente unito: la vita umana, quella di tutti, non può essere vissuta degnamente senza legami e senza riti. Lo dice il Piccolo Principe al capitolo 21: nessuno (come la rosa) è unico e singolare per il piccolo principe senza un legame di cura e di amore. E per costruire legami ci vogliono riti.

La vita nell’amore e nella carità, la vita di comunione, la vita umana degna d’essere vissuta, è fatta di legami e di riti. Diventa “vita nello Spirito”, se quei legami e quei riti si lasciano toccare dalla grazia del Signore, dalla sua presenza che offre sé stesso per noi. La vita diventa culto “spirituale” (vita di comunione e carità) se è animata e toccata dal culto “rituale”, dal dono della pasqua di Gesù (presente nella sua Parola, nella sua Eucaristia e nei Sacramenti). I sacrifici spirituali hanno bisogno del sacrificio rituale. Questa è la chiesa di Gesù!

La metafora storico-salvifica

La terza immagine rimanda alla storia della salvezza. Dopo una lunga spiegazione biblica (1Pt 2,6-8) su Gesù pietra angolare, scelta e preziosa, motivo d’inciampo per chi non crede, ma di onore per chi crede, l’autore passa nel v. 9 alla metafora storico-salvifica del (nuovo) popolo di Dio. Tutti i termini che provengono dall’Antico Testamento per descrivere Israele, sono ora indirizzati a noi (voi siete), al nuovo popolo eletto: «Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce».

Le caratteristiche del nuovo popolo sono quattro. Stirpe eletta: il nuovo popolo è la “stirpe eletta”, perché si radica su Gesù che è pietra scelta (è lo stesso termine applicato a Gesù: vv. 4.6); sacerdozio regale: il sacerdozio santo del v. 5 ora è il “sacerdozio regale”, cioè appartenente al regno di Dio, la forma testimoniale del popolo sacerdotale; nazione santa: la santità appartiene ai credenti in forza dell’elezione che li manda nel mondo come testimoni, dove devono annunciare la loro singolare appartenenza a Dio; popolo (da Dio) acquistato: è il titolo che indica i credenti come una speciale proprietà di Dio, liberati mediante la redenzione nel suo sangue prezioso (1,19) . Le quattro proprietà del popolo cristiano sono attive e dinamiche.

Attraverso il poliedro delle qualità che formano la chiesa, il nuovo popolo di Dio ha un compito unico e una finalità missionaria: affinché proclamiate le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce. Ciò che i credenti devono annunciare sono le azioni e le opere meravigliose di Dio che li ha fatti passare dalle tenebre dell’uomo vecchio alla luce splendente dell’uomo nuovo.

La terza immagine della chiesa come (nuovo) popolo di Dio ne tratteggia la missione storica. Tutti i cristiani sono testimoni e la chiesa è testimonianza. Il cristiano nella chiesa e la chiesa nei cristiani hanno l’unica missione di annunciare le opere meravigliose di Dio (mirabilia Dei): dire e donare Gesù risorto agli altri nella lingua degli altri. Questa è l’opera mirabile di Dio. Egli fa buona la vita degli uomini e delle donne, rendendo giusta e santa la loro vita, prendendo i loro linguaggi e facendosi capire e amare in ogni linguaggio umano.

Questa è la nuova Pentecoste, questa è l’azione dello Spirito Santo, questo è il miracolo delle lingue! Non si tratta di visioni strane e di rivelazioni private, ma della capacità tutta cristiana, che sa far memoria della singolarità della vita di Gesù nella storia plurale delle persone, dei popoli e delle culture. Per questo il cristiano è “memoria spirituale”: “memoria” perché rende presente Gesù nell’oggi, “spirituale” perché lo fa con un sapere e un agire che assume la lingua e i costumi, la cultura e le tradizioni, le domande e i desideri del proprio tempo.

2. Una chiesa estroversa

«Se comunico ai miei uomini l’amore della rotta sul mare in modo che ognuno sia attratto da una forza interiore, allora li vedrai ben presto differenziarsi secondo le loro infinite qualità particolari. Questo tesserà delle tele, l’altro abbatterà l’albero nella foresta con la sua tagliente scure, l’altro ancora fucinerà dei chiodi e in qualche luogo ci sarà qualcuno che osserverà le stelle per imparare a dirigere il timone. E tuttavia tutti insieme non saranno che uno solo. Costruire una nave non significa tessere le tele, fucinare i chiodi, osservare gli astri, ma infondere il gusto del mare che è unico e alla luce del quale non esiste più nulla di contraddittorio, ma soltanto una comunità nell’amore» (Antoine de Saint-Exupéry, Cittadella, riduzione e traduzione di Ezio L. Gaya, Borla, Torino 1965, p. 167-168; originale, Citadelle, Gallimard, Paris 1948, LXXV).

Infondere nel tempo presente il gusto per il Vangelo può essere solo un’operazione corale, secondo la bella espressione di Paolo VI, da poco dichiarato santo. Alla vigilia del concilio, egli diceva con tono ispirato: «Il Concilio è una straordinaria occasione ed uno stimolo potente per aumentare in tutta la cattolicità il “senso della chiesa”. Sembra pronunciata per questa circostanza la memorabile parola di Romano Guardini: “Si è iniziato un processo di incalcolabile importanza: il risveglio della chiesa nelle anime”»1.

L’espressione “il risveglio della chiesa nelle anime” corrisponde oggi alla “passione del Vangelo per gli uomini“. È uno slancio che dobbiamo continuamente imparare dalla bocca e dal gesto di Gesù. È una passione che ha bisogno di donne e uomini coraggiosi, perché non può essere solo affare dei preti, ma di tutti i cristiani che vogliono essere semplicemente “testimoni”. È un cammino che deve avere la lungimiranza della meta e la pazienza del tempo per raggiungerla. Slancio, passione e cammino possono essere osati solo nella coralità del sensus ecclesiae, che è un vero “risveglio della chiesa” come casa e scuola per la missione.

Prenderò come canovaccio dal vangelo di Marco il primo nucleo (Mc 6,7-13) dei discorsi missionari, ripreso e ampliato anche negli altri vangeli sinottici (Mt 10,1-23; Lc 10,1-20). Il testo di Marco è il più breve e propone alla nostra riflessione la formula concisa del manuale di missione per i primi cristiani. Per sé non è una traccia solo per i vescovi e i preti, ma per i discepoli missionari, per la figura dell’apostolo o del profeta itinerante.

Siamo ancora all’inizio del vangelo di Marco, al capitolo 6. Gesù dà le indicazioni per tutti i discepoli che sono inviati in missione. Questa è la sfida dei prossimi anni. I sacerdoti stanno diventando sempre di meno, sta aumentando anche la loro età media, i volti si sono fatti rugati e affaticati e la chiesa avrà futuro se sarà la chiesa di tutti i cristiani, di tutti i cristiani come testimoni. Mi soffermo su quattro aspetti contenuti in questo vangelo.

1.1 L’identikit della missione

Il primo aspetto traccia l’identikit della missione. L’evangelista dice che Gesù «chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro il potere sugli spiriti impuri» (v. 7). Il testo allude al libro del Qohelet dove si dice che «è meglio essere in due che uno solo» (Qo 4,9). Fin dall’inizio Marco parla di un invio dei discepoli due a due, anche se l’invio “due a due” diventerà un tema di fondo di Luca. Nel suo vangelo Gesù invia in missione settantadue discepoli, corrispondenti alle settantadue nazioni, citate nella tavola dei popoli del libro della Genesi (Gn 10).

Anche nel vangelo di Marco, dunque, Gesù manda a due a due. La missione cristiana, a differenza dei profeti dell’Antico Testamento, è una missione che non può essere fatta in proprio, da soli, non prevede profeti isolati. Magari ci saranno alcuni pionieri, ma non potranno essere profeti unici. Chi si isola, farà anche del bene, potrà avere tanta gente intorno, ma quando non ci sarà più lui, tutto sarà finito. Sarà forse ricordato come un mito, ma lascerà molti orfani, perché con le sue parole e i suoi gesti avrà trasmesso il messaggio: dopo di me non ci sarà più uno come me. Difatti, i primi testimoni, i primi missionari sono sempre in coppia, Paolo e Barnaba, Barnaba e Marco, Paolo e Sila, e si potrebbero fare tutti i nomi di coloro che anche oggi svolgono una missione in solido. Da solo magari è bello, forse potrà solleticare il nostro narcisismo, ma non si potrà essere fecondi: si avranno molti ammiratori, ma pochi imitatori.

La missione ha poi un duplice movimento: il primo fa rimanere presso Gesù (“chiamò a sé i Dodici”) e il secondo proietta verso il mondo (“prese a mandarli a due a due”). La fisiologia della missione deve temere come grave malattia sia i cristiani indaffarati che non hanno mai tempo per “stare con Gesù”, sia i cristiani intimisti che non sono mai pronti “per essere mandati”. I primi si realizzano nel fare, i secondi non sono mai in grado di partire. Un cristiano armonico alterna nella sua sintesi personale preghiera e impegno, ascolto e annuncio, celebrazione e carità, formazione e animazione nel mondo. La missione di Gesù fa condividere il suo potere di servizio (“dava loro il potere sugli spiriti impuri”) per la guarigione da ogni forma di sofferenza, di miseria e di soggezione al potere schiavizzante del Maligno. L’azione pastorale della chiesa vive nella sfera di azione del potere salvifico di Gesù: più che prolungarlo nel tempo, mette in contatto gli uomini con la sua forza di guarigione, mediante il suo Spirito. In questo senso la missione della chiesa sta dall’inizio alla fine sotto l’azione dello Spirito Santo.

1.2 La dotazione della missione

Il secondo aspetto indica la dotazione della missione. Gesù «ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura, ma di calzare i sandali e di non portare due tuniche» (v. 8-9). L’elenco di Marco, che indica la dotazione di base del cristiano in missione, è strano, se lo confrontiamo con Matteo e Luca, al capitolo 10 di entrambi. Nel suo testo notiamo due eccezioni nella dotazione del discepolo missionario, il bastone e i sandali, mentre in Matteo e Luca anche questi sono strumenti da non portare. Questo va compreso bene, perché gli esegeti dicono che si tratta di cinque negazioni (“né pane, né sacca, né denaro nella cintura… di non portare due tuniche”) con due eccezioni, i calzari e il bastone, che sono la dotazione del popolo per l’uscita dell’esodo, per il passaggio del mare (Es 12,11).

La missione è un passaggio di liberazione pasquale. Nei prossimi anni saremo chiamati anche noi a una missione povera per i poveri, non solo per coloro che al venti del mese hanno preoccupazioni per tirare la fine del mese, ma anche per le altre forme di povertà, quelle interiori, che sono paradossalmente più difficili da superare, perché le povertà esterne sono imposte, mentre la libertà interiore va conquistata. È la libertà dalle cose, la libertà dal tempo e la libertà del cuore.

Il testimone cristiano – diciamolo anche ai giovani che saranno i testimoni di domani – è uno che sa usare bene le cose, il tempo e ha il cuore libero. Il cardinal Martini usava tre aggettivi molto belli: un cuore libero, sciolto e generoso. Dobbiamo cominciare noi, non dobbiamo solo chiederlo agli altri. Dovremo essere domani una chiesa libera, sciolta e generosa. Altrimenti quello che non abbandoneremo noi, ce lo faranno lasciare gli altri o le circostanze d’intorno. Per questo è necessario un confronto tra preti e laici, tra comunità e famiglie per ritrovare stili di essenzialità nelle nostre comunità. Il rapporto con i beni e le cose, ma soprattutto la libertà nel ministero e la gratuità dei ministeri già esistenti (liturgici, catechistici, caritativi e missionari) e di quelli ancora da pensare e inventare deve essere immersa in un clima di gratuità, disinteresse, libertà interiore e scioltezza.

1.3 I gesti della missione

Il terzo aspetto riguarda i gesti della missione. Gesù fino a questo punto della sua istruzione parla in discorso indiretto, come se proponesse un manuale delle istruzioni per il missionario, per il cristiano testimone. Da qui in avanti Gesù, invece, parla in discorso diretto. È come se si rivolgesse personalmente a ciascuno di noi. «Diceva loro: “Dovunque entriate in una casa rimanetevi finché non sarete partiti di lì…» (v. 10). Potremmo dire che qui sono indicati i gesti della nostra testimonianza.

Sarà difficile nei prossimi anni trovare ciò che è essenziale per la vita personale e per la famiglia, per la chiesa e per la società. I gesti della testimonianza (“rimanere, proclamare, scacciare demoni, ungere le piaghe, guarire il cuore”) dovranno trovare il ritmo giusto tra animazione e formazione. Pensiamo agli adolescenti e ai giovani: se li animiamo soltanto, ma non li formiamo, dopo che hanno finito di socializzare, non sanno per che cosa stanno insieme. Quando sorgono i primi disturbi nel legame fra amici, questi producono l’abbandono del gruppo. Quando ci sono le prime difficoltà relazionali, si lascia con il gruppo anche il cammino di fede. Sappiamo che, quando c’è il Grest, i nostri oratori sono pieni di ragazzi e adolescenti, ma quando si pigia un po’ di più l’acceleratore sulla formazione, sovente rimangono in pochi. Hanno vissuto in gruppo, ma non hanno fatto squadra per giocare la partita della vita. “Fare squadra” esige allenamento e disinteresse in vista del gioco comune. Soprattutto esige tempo, perché il campionato della vita deve allenare all’ideale e alla lotta corpo a corpo con i propri limiti, con gli alti e bassi della vita. Non possiamo immaginare che si possono tenere insieme le persone, senza la formazione per coltivare un sogno, un progetto di vita.

Così dobbiamo tenere insieme le altre polarità, presenti nei gesti della testimonianza: tra ascolto e proposta, tra prossimità e annuncio, tra consolazione e progetto, tra guarigione e proclamazione della speranza. Gesù ci dà alcune regole per la missione. In genere, oggi vi sono alcune persone che enfatizzano un aspetto di queste polarità: l’errore non sta nel sottolineare o privilegiare un aspetto, ma nel viverlo in modo unilaterale. Vi sono alcuni che si spendono solo per la carità. È importante la carità? Assolutamente sì, ma non basta. Perché la carità non deve solo rispondere ai bisogni dei poveri, non deve solo trattare con dignità i bisognosi, ma deve liberarli dal bisogno, deve farli diventare liberi e responsabili. Per questo la carità ha bisogno di molta formazione, esige di far crescere il povero nella coscienza della responsabilità.

Ho fatto solo un esempio a riguardo del rapporto tra carità e formazione. Ma potremmo approfondire anche le altre polarità: ci sono persone molto brave nell’ascolto, ma deboli nella proposta, ci sono persone facili nella prossimità, ma deboli nell’annuncio, vi sono persone molto brave nella consolazione, ma deboli nel progetto. Solo mantenendo la polarità tra queste coppie, si costruisce e si promuove la vita. La vita si genera sempre in modo polare: se vince solo un polo, alla fine la vita muore. Gesù ci insegna a restare nelle tensioni positive della vita, che sono i gesti fondamentali della nostra testimonianza.

1.4 Il destino della missione

L’ultimo aspetto indica il destino della missione. Continua il testo di Marco: «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro» (v. 11). Il testo che segue si riferisce alla messa in pratica, quasi alla lettera secondo lo schema comando-esecuzione, di ciò che è stato dichiarato nel discorso diretto da Gesù: «essi partirono e proclamavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano» (v. 12). La testimonianza è fatta di due momenti, che sono il dialogo e il martirio. La stessa parola testimonianza in greco (martyría) significa sia apologia nei tribunali sia sacrificio della vita. Il martirio è la testimonianza che arriva fino al sangue.

Questa è la cosa oggi difficile da comprendere: se saremo cristiani che non hanno più nulla da dire, da attestare, allora diventeremo insipidi. Il termine “dialogo” significa che io ho una parola da dire all’altro, un logos che passa attraverso. Dia-logos significa un logos, una ragione, un significato, una speranza, una fiducia che devo trasmettere a te e che devo scambiare con te. Il dialogo, se non ha una parola forte e un senso concreto da consegnare, alla fine si esaurisce in sé stesso. Molti dialogano senza trasmettere molto, stanno in dialogo una vita per sentirsi vivi.

Il dialogo autentico deve essere capace qualche volta non solo di dire le parole che gli uomini e le donne s’aspettano, ma di chiamare anche gli uomini e le donne a fare un passo in più, a uscire da sé stessi. Questa dinamica è il cuore della nostra testimonianza che può arrivare sino al martirio, e deve resistere anche alle sue forme più sottili che sono l’indifferenza, il rifiuto e la marginalizzazione. Allora da qui viene un’altra serie di domande. Saremo cristiani attrezzati solo per il successo? O saremo anche capaci di metabolizzare il fallimento della nostra missione? Saremo cristiani capaci di prendere il ritmo degli altri, delle persone che ci sono affidate, della pazienza da esercitare nei confronti di chi ci sta accanto, della responsabilità civile, dell’impegno nella nostra società?

È una visione dinamica della nostra vita e della nostra fede. Un cristiano che ha una fede solo privata, che dice: “ognuno ha la sua fede, ma vale solo nello spazio privato”, trasforma la sua testimonianza in un vaso cinese, magari preziosissimo, ma solo da ammirare. Dinanzi a esso si può dire solo: “tu hai la fede, io non ce l’ho, ti ammiro, ma non mi aiuti a imitarti”. La fede diventa un soprammobile, bello da mostrare, ma non è più una realtà che entra nello scambio civile e sociale. Quando dico sociale, mi riferisco a realtà che stanno molto prima della politica, molto prima dell’impegno civile. Riguarda lo scambio di ogni giorno, i rapporti uomo-donna, le relazioni genitori-figli, i rapporti di amicizia, i rapporti tra i gruppi, associazioni e movimenti. La società prima di essere fatta dalla politica è fatta da un tessuto sociale preesistente, perché se la politica non s’innerva su questo tessuto di rapporti sociali forti e significativi, alla fine fa molta fatica ad esercitare il suo compito.

  1. Una chiesa dai molti volti

Non ci nascondiamo le gravi difficoltà del tempo presente, che riguardano soprattutto la possibilità di rendere sempre più e meglio le comunità cristiane luoghi di esperienza del vangelo vivo. Tuttavia sappiamo che non ci sono epoche più o meno favorevoli per accogliere la Parola del Signore, e conosciamo l’energia vitale che promana dalle sue «parole di vita eterna» (Gv 6,68). Esse risuonano ancora oggi nella loro freschezza, soprattutto se vi sono evangelizzatori forti e coraggiosi che annunciano ciò che vivono.

Di fronte al compito di fare una chiesa dai molti volti, l’obiezione più facile riguarda la preparazione e la formazione dei laici per partecipare alla missione della chiesa, anche perché un’idea molto diffusa li aveva confinati nella “animazione del mondo”. Se aspettiamo che la formazione sia portata a compimento, forse nessuno oserà mai partecipare al compito apostolico della chiesa. Nella storia non è mai successo così: dal Nuovo Testamento fino ad oggi, molti laici si sono appassionati al vangelo, spesso perché chiamati da un apostolo o perché si sono offerti per condividere un’opera ecclesiale. Sovente senza chiedere approvazioni e riconoscimenti. È missionario chi si sente mandato a far risuonare il vangelo oggi: la sua è un’intuizione e un impulso della mente e del cuore. Ciò che conta è la sua passione, ma questo non esclude la sua formazione.

Perciò svolgerò alcune riflessioni sulla a) dimensione ecclesiale della fede come sfondo di ogni ministero laicale; poi offrirò b) qualche indicazione sulla formazione dei laici, disegnando gli ambiti dei percorsi formativi.

  1. La dimensione ecclesiale della fede come sfondo di ogni impegno laicale

Esiste un malinteso diffuso che è utile dissipare sin dall’inizio e che assume subito due forme abbastanza vistose: la prima è quella che confonde cristiano “ecclesiale” e cristiano “impegnato”; la seconda è quella che pensa al cristiano “impegnato” come al cristiano “parrocchiale”.

La prima confusione è assai presente soprattutto in quei credenti che si sentono “più vicini” alla parrocchia e in particolare al sacerdote. Avere coscienza e pratica di chiesa richiede di impegnarsi per la comunità e in particolare per le attività che essa propone. “Ecclesiale” equivale a “impegnato”, magari anche impegnato in parrocchia (o in altre istituzioni o movimenti ecclesiali). Anche chi contesta questa maniera unilaterale di pensare la dimensione ecclesiale della fede, perché è occupato nella professione o in compiti che lo portano lontano dagli ambienti ecclesiali, sente la propria testimonianza come una testimonianza privata, ma senza intenzione ecclesiale. Non pensa che anche nel mondo la sua fede non dice solo di sé, non testimonia soltanto la sua coscienza cristiana, ma attesta un’appartenenza ecclesiale. E con questo anch’egli conferma l’equivalenza tra “ecclesiale” e “impegnato”. Nel mondo, in casa, in famiglia, nel lavoro, tra gli amici, non si dà propriamente testimonianza della propria appartenenza alla chiesa, ma quando va bene solo della fede privata e individuale. Ci si dice “cattolici”, ma questo è il titolo del proprio credo, non il nome di una comunione che alimenta la propria coscienza e le scelte d’ogni giorno.

Da qui proviene anche la seconda confusione: se ecclesiale significa impegnato, allora impegnato significa dedicato alla chiesa, in particolare alla parrocchia (e a ciò che le sta attorno). Anche questa restrizione alla forma concreta dell’impegno ecclesiale è assai diffusa e può avere persino buone ragioni: quando uno incontra praticamente la chiesa si rivolge alla parrocchia. Sembra del tutto naturale, quindi, concludere che l’impegno ecclesiale corrisponda al servizio parrocchiale. La dimensione ecclesiale, tuttavia, descrive anzitutto una coscienza e una qualità della vita cristiana come tale, e non immediatamente l’ambito e l’oggetto del proprio impegno.

Una sana fisiologia del ministero laicale esige, perciò, di riconoscere francamente che la dimensione ecclesiale appartiene, almeno virtualmente, alla vita cristiana come tale. Non c’è esistenza cristiana che non abbia una rilevanza ecclesiale. Anche chi contingentemente non può far nulla per gli altri, anche chi per molto tempo è trattenuto per la famiglia e il lavoro, anche chi è assorbito nel mondo, anche chi ha fatto una scelta di vita che lo porta lontano dagli ambienti ecclesiali, non può non sperimentare il vantaggio di appartenere ad una comunione, senza la quale anche la sua fede personale si inaridirebbe e morirebbe. In un tempo di appartenenze deboli, di legami allentati o a distanza, occorre far sentire che il vincolo della comunione precede e fa crescere la fede personale, prima che esso possa tradursi subito in un impegno qui e ora.

Anzi, bisogna dire di più: anche l’“impegno” ecclesiale deve assumere forme più diffuse, meno identificate subito in ministero “riconosciuto” o “istituito”. Molti credenti, nel passato, hanno reso presente la chiesa tra le case e nella parrocchia con una sollecitudine evangelica che si traduceva in forme spicciole di preghiera, di ascolto, di servizio, di prossimità, che non pretendeva né prima né mai il sigillo di autenticità del sacerdote o della parrocchia. Molti hanno servito la chiesa senza nessun riconoscimento della chiesa. Spostare tutta l’operosità ecclesiale dentro l’ambito dei ministeri, è fisiologicamente errato, perché anche questi servizi pastorali saranno come senza contesto. È come se si togliesse l’humus in cui possono crescere o lievitare. Tanto che capita spesso di vedere identificato il servizio con quelli che servono alla chiesa. Servire la chiesa è un modo e un segno per servire la fede e la vita cristiana di tutti.

Sembra paradossale, ma una riflessione sui ministeri ecclesiali deve radicarsi e favorire anzitutto l’ecclesialità della vita cristiana tout court. Altrimenti l’esito è facilmente prevedibile: avremo una privatizzazione della vita cristiana e una professionalizzazione del servizio ecclesiale. Con grave danno per ambedue, non solo sul piano della gratuità, ma della stessa coscienza cristiana. Il battesimo è condizione necessaria e sufficiente per l’appartenenza alla chiesa, ed esige di tradursi nella multiforme e variegata costellazione di dedizioni cristiane che hanno fatto del cammino del popolo di Dio una storia meravigliosa. I ministeri laicali per la comunità e per la missione nel mondo sono una ben precisa configurazione storica della coscienza e della pratica di vita ecclesiale che appartengono a tutti. I primi non devono assorbire le seconde, le seconde sono l’atmosfera perché i ministeri crescano sani, abbiano ricambi, vivano uno stile di gratuità, esprimano slancio missionario, non si clericalizzino, non siano riferiti solo a se stessi.

  1. Una chiesa in stato di formazione: un seminario dei laici?

Il Seminario dei laici è lo strumento di formazione dei laici. Esso comprende anche la formazione diffusa della coscienza cristiana nel normale cammino pastorale. A quest’opera di formazione diamo il nome di “Seminario dei laici”. Perché la vita pastorale sia armonica bisogna distinguere almeno tre momenti della formazione del popolo di Dio. Possiamo immaginare in concreto questo ampio processo formativo con l’immagine dei centri concentrici: il primo più grande riguarda la formazione della coscienza cristiana come tale (b.1); il secondo intermedio che si riferisce alla formazione dei ministeri laicali esistenti e nuovi (b.2) ; il terzo più piccolo che si dedica alla formazione delle équipes pastorali (b.3). Il primo contiene gli altri due, il secondo e il terzo specificano il primo.

b.1 Il cerchio più grande: la formazione della coscienza cristiana

Il primo cerchio più comprensivo procede all’educazione della coscienza testimoniale nel corpo vivo della pastorale. Ciò non avverrà solo per i laici, ma con i laici, uomini e donne. È questa la pista fondamentale per ridare smalto all’attuale volto della parrocchia nel contesto rinnovato delle Unità Pastorali (UP). Le nostre comunità cristiane dovranno collocarsi nei prossimi anni in stato di formazione. Ciò comporta di pensare ai normali gesti della parrocchia nel quadro delle UP, sottolineandone in modo marcato il profilo educativo.

Che cosa significa questo? Mi preme indicare due aspetti. In primo luogo, bisognerà imparare a leggere i bisogni della vita della gente e trovare gli spazi ecclesiali, dove si può stabilire una buona circolarità tra la libertà delle persone e l’annuncio del vangelo. In secondo luogo, bisognerà scegliere e puntare su due o tre momenti della vita delle parrocchie nell’UP che valorizzino tale aspetto formativo della coscienza cristiana.

Spendo una parola per illustrare il primo aspetto. Formare la coscienza cristiana significa far incontrare il vangelo con la vita quotidiana delle persone. Da una parte, infatti, l’azione pastorale incontra i “bisogni umani” delle persone nella loro situazione esistenziale, che richiede una risposta diversificata. Penso alla vita di famiglia, alla crescita dei giovani, al lavoro, alla scuola, allo scambio culturale, all’assistenza sanitaria, alle diverse forme d’intervento di volontariato e di assistenza, alla cura delle condizioni marginali (carità, carcere, migranti), ai luoghi del tempo libero e del divertimento. Di fronte a queste istanze della vita umana la comunità cristiana è stimolata a non presentarsi esclusivamente con la figura del prete, ma s’impegna a leggere con i laici le diverse situazioni a partire anche dalla loro esperienza concreta. Un’azione pastorale, che si misura con semplicità e con verità su queste istanze della vita quotidiana, susciterà energie e cammini nuovi.

Dall’altra parte, l’azione pastorale è a sua volta capace di generare “luoghi umani”, animati dalla comunità cristiana. La comunità crea rapporti nuovi, dinamiche comunitarie fresche, risana a volte situazioni umane deteriori, dà volto anche a quartieri degradati, introduce movimenti di umanizzazione. Diventa allora interessante ripensare il valore educativo dei “luoghi ecclesiali”: la chiesa aperta come luogo di accoglienza; una presenza certa per il colloquio, per il bisogno, per l’incontro, per la confessione; i gruppi di annuncio e di formazione alla fede; l’eucaristia domenicale come luogo di prossimità alla vita della gente; l’accompagnamento delle famiglie e dei bimbi nei primi anni della vita; la presenza educativa nel mondo giovanile; le forme di vita fraterna pensate nel contesto della vita adulta; le modalità di animazione del mondo degli anziani; l’uso elastico delle strutture e dei luoghi parrocchiali.

La parrocchia, che si prende cura della qualità cristiana di queste relazioni, si muove nella linea di una comunità fatta con molte articolazioni e diversi ministeri. Tutto ciò avviene nella comunità cristiana (la parrocchia con le parrocchie vicine) attraverso i percorsi educativi che si svolgono durante l’anno (pastorale giovanile, pastorale familiare, carità, missioni, iniziazione cristiana con i genitori, preparazione al matrimonio cristiano, terza età, ecc.).

Per quanto riguarda il secondo aspetto, suggerisco alcune possibilità come ricchezze già presenti o intuizioni da proporre. Aggiungo l’avvertenza che sarà utile puntare su due o tre scelte nel quadro delle UP, per dare una forte tonalità formativa e qualificare alcuni momenti generativi della vita delle parrocchie. Propongo alcuni percorsi esemplari, che ciascuna UP potrà arricchire :

  • Una proposta qualificata per la messa domenicale nei tempi liturgici forti: con l’aiuto dei ministeri liturgici già esistenti si proponga un cammino di Avvento e di Quaresima con un forte tratto educativo della coscienza cristiana, magari valorizzando anche una “domenica della comunità”.

  • Un percorso dedicato ai genitori dei ragazzi dell’iniziazione cristiana: nel quadriennio dell’iniziazione cristiana dei figli (prima comunione e cresima) si proponga ai genitori un cammino per la riscoperta della vita di coppia e di famiglia, facendo diventare la stagione di iniziazione dei ragazzi anche un momento di maturazione della vita di coppia, accompagnando la famiglia in questa nuova stagione.

  • Un ripensamento coraggioso dei percorsi di preparazione al matrimonio cristiano: la caduta della richiesta di sposarsi in chiesa ci chiede di ripensare radicalmente il corso fidanzati, trasformandolo in percorso di iniziazione al matrimonio cristiano. Bisognerà articolare attraverso nuovi contenuti e strumenti, predisposti dal ’Ufficio Famiglia, il valore aggiunto che la domanda di “sposarsi nel Signore” contiene almeno in modo virtuale: approfondire il senso di una scelta di vita definitiva e come c’entra il sacramento cristiano per far maturare tale scelta.

  • Un cammino speciale di discernimento vocazionale per giovani: come frutto del Sinodo dei giovani, i vicari parrocchiali con i loro gruppi giovanili offrano, magari in sinergia tra più UP vicine, un cammino di orientamento e discernimento vocazionale, con temi cruciali della vita giovanile, quali l’affettività, il lavoro, le relazioni, la scelta di vita, la costruzione del domani.

  • Un luogo di riflessione ed educazione alla carità pratica cristiana: segnali preoccupanti rivelano l’affievolirsi del senso di accoglienza e lo spegnersi della spinta ad una carità attiva. Per questo inquietano la coscienza cristiana: si può pensare alla Giornata mondiale che Papa Francesco ha dedicato ai poveri come a un momento propizio di sensibilizzazione delle comunità cristiane della diocesi.

3.3.2 Il cerchio intermedio: la formazione dei ministeri laicali

Il cerchio intermedio è dedicato alla formazione dei ministeri laicali ad intra e ad extra. È la formazione teologica, spirituale ed ecclesiale, per tutti coloro che hanno già o intendono assumere un incarico ministeriale (membri di consigli pastorali ed affari economici, catechisti, animatori di coppia e famiglia, operatori caritas e missioni, altri servizi ad extra). Essa si realizza, anzitutto, con cammini indirizzati soprattutto alla formazione del sensus ecclesiae. Questo significa almeno due cose: 1) sperimentare in modo pratico (preghiera, ascolto della parola, senso della celebrazione, valore dei servizi ecclesiali) che cosa significa assumere e vivere un ministero nella chiesa; 2) imparare a farsi carico dello sguardo sulla comunità e sulla sua missione nel mondo, con un’ottica ecclesiale e superando i particolarismi, soprattutto quelli tra le parrocchie vicine.

Bisogna elaborare un programma serio e sufficientemente elastico, con un percorso a livello di più vicariati, offrendo una proposta di vasto respiro, che coinvolga molte competenze, capace di suscitare sul territorio persone che si prendano cura della formazione intellettuale, pastorale, spirituale dei laici e con i laici.

La scelta della nostra diocesi è di offrire un “tempo di formazione” che, per così dire, sia la casa del “Seminario dei laici”. Possiamo indicare i destinatari e i contenuti essenziali che potranno essere precisati cammin facendo.

  • Il “tempo di formazione” consiste in una proposta triennale, in modo tale che lungo il triennio tutti i ministeri laicali possano fare almeno un percorso annuale. Esso è pertanto aperto a tutti coloro che hanno già o intendono assumere un incarico ministeriale (membri dei consigli pastorali e affari economici, animatori liturgici, catechisti, coppie e famiglie, operatori caritas e missionari, altri servizi ad extra, come volontari, operatori sociali e politici).

  • Gli “ambiti di formazione” previsti si distendono su cinque sabati con momenti che introducano ai diversi aspetti della vita cristiana, pastorale e sociale, alternando momenti di preghiera, riflessione sulla parola, ascolto di esperti, confronto, laboratori pratici, conoscenza di esperienze.

  • I “temi di formazione” non hanno di mira subito l’abilitazione a un ministero specifico, ma l’educazione al sensus ecclesiae e l’assunzione della capacità di discernimento comunitario. Il programma avrà come suo punto focale la conoscenza e la personale esperienza dei luoghi essenziali dell’agire pastorale della chiesa e delle attenzioni all’umano e ai temi del tempo attuale, come ho cercato di illustrare nel mio Liber Pastoralis2.

  • I “soggetti di formazione” saranno prima di tutto le persone che parteciperanno a questo momento del “Seminario dei laici”. Saranno accompagnati non solo da figure significative della chiesa diocesana, ma si confronteranno anche con altri testimoni della vita cristiana e dell’impegno pastorale attuale, per imparare dal vivo il rapporto con le persone, il senso ecclesiale e il discernimento comunitario.

3.3.3 Il cerchio più piccolo: la formazione delle Équipes pastorali

Il cerchio più piccolo realizzerà la formazione dei membri delle Équipes pastorali. In concreto si dovrà pensare a un “percorso specifico” caratterizzato non solo da un’introduzione teorica, ma anche da momenti – weekend, laboratori di sperimentazione, settimana estiva – in cui sia messa alla prova l’abilitazione pratica di questo ministero pastorale delicato, formando una vera coscienza ministeriale e la capacità di aprire le parrocchie al lavoro pastorale integrato delle UP.

Non potrà mancare anche un forte momento di formazione ecclesiale e spirituale. La povertà di formazione ecclesiale e spirituale genera spesso visioni particolari, ma senza coscienza personale e senso ecclesiale, che non approdano a una vera autonomia cristiana e ministeriale dei laici.

È facile intuire che per entrare con la mente e il cuore in questa vasta opera educativa, la nostra chiesa dovrà mettersi in stato di formazione. Non bisogna farsi prendere dall’assillo di vedere subito i risultati, né bisogna tirare il freno perché si vede che l’opera è ambiziosa. Non dobbiamo lasciare spazio né agli atteggiamenti superficiali di chi pensa di liquidare l’impresa con qualche iniziativa in più, né ai comportamenti disfattisti di chi sta di lato o al termine del cammino, per lasciar passare il corso delle cose.

La formazione della coscienza cristiana e la nascita di nuove vocazioni ministeriali è un’opera del tutto spirituale, perché deve lasciare spazio e lasciarsi fare dall’azione suadente e tonificante dello Spirito Santo. Quando in famiglia nasce un nuovo figlio, tutti devono rigiocarsi gli spazi e i tempi del proprio abitare la casa. Se Dio vorrà, se il nostro cuore sarà stato docile all’azione dello Spirito, potremo vedere nascere la chiesa del terzo millennio, che deve essere una ripresa creativa della tradizione dei martiri, dei monaci, dei vescovi e dei cristiani del primo millennio, insieme alla nube dei santi, dei missionari, degli uomini e delle donne della carità del secondo millennio. Per meno di questo non vale la pena di percorrere le misteriose strade dello Spirito per annunciare ancora oggi e domani la gioia del vangelo.

1 «I concili nella vita della Chiesa», in Giovanni Battista Montini, Arcivescovo di Milano, Discorsi e scritti sul Concilio (1959-1963), a cura di A. Rimoldi, Presentazione di G. Cottier (Quaderni dell’Istituto 3), Brescia – Roma, Istituto Paolo VI – Studium, 1983, 109-124: 114.

2 Si veda: F.G. Brambilla, Liber pastoralis, Quarta edizione rivisitata e aumentata, Queriniana, Brescia 2018, p. 346.