Contributo della diocesi di Perugia-Città della Pieve

SCHEDE PREPARATORIE ASSEMBLEA ECCLESIALE REGIONALE

1 – VIVERE LA CHIESA

1) Ciò che mette in evidenza l’appartenenza alla Chiesa è sicuramente la messa parrocchiale. Non meno importanti sono i pastori che tengono il popolo unito intorno ai sacramenti. I servizi pastorali poi sono il frutto di questa appartenenza. Oltre alla fede, che è l’elemento essenziale e comune ai cristiani, il sacerdote è la persona che guida la comunità e che trasmette il senso di appartenenza alla parrocchia e, a seguire, all’unità pastorale, alla diocesi e alla Chiesa universale. E’ lui per primo che si deve sentire coinvolto nella vita parrocchiale, soprattutto nell’unità pastorale. Non si può pensare soltanto alla parrocchia assegnata, ma nell’ottica di quella unità pastorale i sacerdoti che ne fanno parte devono fare comunione, condividere, dialogare e aiutarsi a vicenda come in una famiglia, affinché il messaggio e l’esempio sia chiaro anche per la comunità. D’altro canto anche i laici, soprattutto quelli con un marcato campanilismo, devono essere guidati e informati dal sacerdote sulla bellezza e ricchezza della comunione e condivisione con le altre realtà parrocchiali. In alcune Unità Pastorali è stato fatto, nei tempi “forti”, un cammino comune a tutte le parrocchie, con tematiche comuni e durante l’anno liturgico ci sono stati momenti di preghiera che hanno visto coinvolte tutte le parrocchie riunite. Anche le catechesi mensili unitarie sono state uno strumento molto utile per la crescita spirituale dei laici e hanno dato uno spunto di riflessione a tutti i fedeli.

2) L’esultanza della festa risulta non sempre costante. Si notano certamente periodi nei quali essa è più evidente ed altri invece nei quali si affievolisce sotto il peso della routine. Per alcuni si sente il desiderio di offrire una maggiore accoglienza rispetto a chi si accosta ai sacramenti in modo da mettere a proprio agio chi arriva. L’idea che nasce da molte riflessioni, comune a molte realtà parrocchiali, è quella di un bisogno forte ad una sorta di rieducazione alla liturgia.
In molte parrocchie è ormai evidente la diminuzione dei fedeli alla messa domenicale ed in generale alle attività parrocchiali collegate. La domenica è riservata allo sport dei figli, agli hobbies, allo shopping e non si “trova il tempo” per ringraziare il Signore e fare festa insieme alla propria comunità. Probabilmente la messa viene vista come una delle tante attività e non sempre viene collocata al primo posto.

3) E’ necessario che i laici che animano la liturgia siano formati e coscienti del loro ruolo per ogni servizio che viene svolto. Non ci si può improvvisare animatori liturgici. La gioia della fede è la consapevolezza di avere partecipato attivamente alla celebrazione e di testimoniare tale gioia agli altri.

4) Parlando del clero della nostra diocesi possiamo dire che solitamente sono assidui agli incontri di formazione. In alcune parrocchie la Evangelii gaudium è arrivata fino al popolo grazie proprio alle iniziative dei parroci che hanno promosso incontri di riflessione sui contenuti di questo documento.

2 – GLI ADULTI E LA FEDE

1) Poco, è stato il commento lapidario ma sincero che è emerso da molti gruppi. Si è tutti concordi nel dire che è necessario tornare ad annunciare il Kerygma e all’approfondimento della conoscenza della Sacra Scrittura.
Non esiste un primo annuncio della fede e una formazione cristiana permanente che non siano fondati sulla Parola di Dio ascoltata, meditata, celebrata. Quanto al “vissuta e testimoniata” esse sono due condizioni strettamente legate fra loro, perché, più che dalle parole, la vera testimonianza viene dal modo in cui si vive la famiglia, la comunità, il lavoro, la sofferenza, etc…
La testimonianza è imprescindibile dalla vita vissuta. Purtroppo non sempre il quotidiano è conforme agli insegnamenti della Parola di Dio, spesso alle prime difficoltà si adatta lo stile di vita ai bisogni del momento, con la conseguenza che non si testimonia ciò che si sarebbe dovuto testimoniare. Altre volte è la nostra insicurezza che frena la spinta a dare testimonianza, ma per fortuna la bellezza del volto di un cristiano sereno è già di per sé testimonianza.
Tuttavia, in merito al primo annuncio, è bene considerare che il processo di secolarizzazione impone di riscoprire e riproporre il Kerygma non solo per evangelizzare gli atei, ma anche per ri-evangelizzare i battezzati, coloro che si sono allontanati dalla fede o che sono cristiani solo nominalmente, per ritrovare nell’esperienza dell’Amore di Dio per l’uomo, il “centro vitale” delle fede di ogni cristiano. Riconosciuta la struttura portante e immutabile del Kerygma, è necessario individuare più forme di primo annuncio da proporre nelle UP, magari su indicazioni e proposte concrete da parte dell’Ufficio Catechistico Diocesano, il quale potrebbe collaborare con le UP per le proposte e successivamente per la verifica della risposta nei vari territori.

2) Gli strumenti per compiere la missione di evangelizzare, per altro già presenti in diverse parrocchie, sono il Cammino Neocatecumentale, Rinnovamento nello Spirito, Cellule di Evangelizzazione, Notre Dame, Magnificat , Focolarini e Azione Cattolica. Questo per quanto concerte le iniziative già strutturate.
Inoltre ci sono le iniziative diocesane :
– Corsi di formazione liturgica
– Scuola Diocesana di Teologia Leone XIII (Ora dipendente dall’Istituto Teologico di Assisi)
– Iniziative bibliche proposte dal SAB (Settore Apostolato Biblico diocesano)
Da qualche anno sono risultate molto efficaci per gli adulti le catechesi dei “I 10 comandamenti”, che spesso sfociano in cammini di fraternità. Questi progetti hanno consentito, a coloro che vi hanno partecipato, un approccio alla conoscenza della Parola di Dio e come questa opera in noi e per noi, determinando di fatto una crescita continua e progressiva verso una fede consapevole. L’esperienza delle “fraternità” rappresenta la risposta alla necessità di riscoprire e vivere la dimensione comunitaria della Chiesa e allo stesso tempo favorisce la crescita dei rapporti umani e spirituali che in contesti più grandi è difficile percepire. Esse possono inoltre assumere i connotati di una comunità di base che, sotto la guida dei Sacerdoti, può offrire concretamente a laici e famiglie un autentico cammino di discepolato.

3) Le difficoltà di comprensione ci sono, ma sono soprattutto del linguaggio liturgico e per questo ci sarebbe bisogno di corsi o catechesi per spiegare la simbologia liturgica. La difficoltà maggiore nel percorso con gli adulti risulta dalla eterogeneità nell’estrazioni socio-culturali dei partecipanti e da differenti aspettative, in quanto alcuni gradiscono un percorso incentrato sulla Parola mentre altri desiderano maggior spazio alla preghiera. Una difficoltà che si rileva è la mancanza di un percorso unitario diocesano/regionale che induce ogni anno a cercare individualmente nuovi temi da trattare.
Per comunicare la fede in Cristo all’uomo di oggi è sicuramente importante “accorciare le distanze” utilizzando un linguaggio meno dogmatico e più esperienziale, ma ciò che è veramente importante rivedere è il nostro modo di porci dinanzi a chi non capisce o ci osteggia, cercando di vedere con gli occhi di Cristo ogni persona e ogni situazione, cercando di entrare in relazione nonostante tutto, credendo che la luce di Gesù può dare un significato nuovo ad ogni vita. Oggi siamo abituati a pensare a tempi di ritorno brevi, brevissimi, ma la fede opera con i suoi tempi. Se non poniamo attenzione a questo, colui al quale è indirizzata la comunicazione, potrebbe avere aspettative troppo alte e allontanarsi presto se non vede subito risultati tangibili. Bisogna dare chiarezza agli obiettivi, non ponendo limiti alla Divina Provvidenza, ma rassicurando le persone che si tratta di un invito all’ascolto e che nessuno vuole convertire nessuno.
4) Possibili prospettive: riscoperta del ruolo di pastore del popolo a lui affidato, collaborazione con il laicato, dedizione all’annuncio, alla preghiera e ai Sacramenti.
Difficoltà: isolamento, solitudine, impossibilità di dedicarsi assiduamente all’annuncio perché impegnati in troppe cose materiali, scarsa sinergia con la Diocesi e i suoi Uffici, difficoltà ad adeguarsi ad una “nuova” idea di prete.

3 – GIOVANI E FEDE

1) Tenendo conto della crisi della famiglia e della crisi giovanile, i ragazzi richiedono una chiesa più umana, dove non dominano le regole, ma è necessario l’incontro con l’altro, una testimonianza di vita, l’incontro con l’umanità di Cristo. Non richiedono la comunicazione di storie, ma fatti e testimonianze per favorire il discernimento anche vocazionale, parlando con la loro vita a partire dall’ambito in cui vivono. Parlare di vita e non di moralità permette alla fede di diventare una dimensione totalizzante e la condivisione di una cammino.
Questo aspetto della fede può essere letto da due punti di vista:
– Quello dei giovani che vivono sempre di più la precarietà dei valori, la paura, la diffidenza nei confronti del prossimo, le distrazioni continue e l’egoismo;
– Quello di coloro che “dovrebbero” trasmettere la buona notizia, ma che hanno sempre maggior difficoltà ad essere testimoni della fede.

2) Nel nostro territorio l’evangelizzazione tra pari non avviene in modo costante. Lo stimolo al tentativo è a volte fallimentare se manca il collegamento tra le diverse fasce di età.
I giovani andrebbero per prima cosa ri-educati all’ascolto e a parlare di sé.
Evangelizzare attraverso il servizio è per i giovani forse la modalità più accessibile.
Dal punto di vista dell’apprezzamento e della valorizzazione forse è necessaria maggiore attenzione ai tentativi che i giovani fanno in questa direzione.

3) La Pastorale giovanile ci sembra una pastorale di eventi, ma non è funzionale perché non avvia sempre un cammino di fede e di approfondimenti del proprio percorso vocazionale. Nella pastorale giovanile le attività non sono differenziate per età, ma proposte uniformemente, mentre è evidente che differenziare i percorsi per gruppi di età sarebbe utile e costruttivo. In ultima analisi i percorsi dovrebbero avere come scopo l’incontro, formativi sulla parola e sulla preghiera.

4) Manca una proposta concreta di cammino, mentre le vocazioni vengono dai movimenti; i ragazzi sentono altre esigenze e altri input, manca il contesto e una proposta concreta di cammino. In questo è inconcepibile la dicotomia tra parrocchia e movimenti, ma occorre costruire una pastorale di integrazione tra movimenti e parrocchie per crescere insieme in condivisione di esperienze, di preghiera e condivisione della fede.
La vita consacrata appare ai nostri giovani come una vita molto distante da quella “normale” e ciò comporta un disinteresse diffuso e una scarsa accoglienza. Vivere la vocazione del mistero ordinato è vista come una restrizione della libertà della vita dei giovani.
L’esperienza ci evidenzia come una buona guida possa essere tracciata da parroci “giovani” che raccontando la propria esperienza di vita mettono in risalto la bellezza della vita consacrata.

4 – FEDE E VITA/1

1)Occorre ripartire dal documento del Pontefice sul neocatecumenato pre e post coniugale. Nel caso specifico si ritiene insufficiente il numero dei corsi prematrimoniali, i quali sono incentrati sul tempo e non sul donare al Signore e alla persone che ami.
L’educazione agli affetti è la grande emergenza dei nostri giorni in tutti gli ambiti: familiare, sociale, parrocchiale; in nessuno degli ambiti descritti viene coltivata come richiederebbe, viene lasciata soprattutto alla formazione/sensibilità personale e all’ambito familiare.
La persone , l’individuo non vive più una realtà basata su valori morali/etici/religiosi; non rispettiamo più il prossimo come individuo, come umano, come simile “a me”…come altro “me”!!! Abbiamo solo “interessi” da perseguire, di qualsiasi genere quindi anche gli “AFFETTI”, molto spesso, sono opportunistici.
Non tutte le comunità sono attrezzate per educare gli affetti, e anche dove sono attrezzate è molto difficile interessare, incuriosire e/o attirare l’individuo.

2)Le fragilità a cui siamo sottoposti sono le stesse del mondo:
-incomunicabilità e opportunismo
-incapacità di prendere la responsabilità del rapporto
-immaturità delle coppie
-mancanza di motivazione affettiva
-mancanza di formazione
-crisi della famiglia.
La fragilità non è da giudicare moralisticamente, va concepita come un’opportunità di incontro, di apertura, di rapporto in cui ci si mette in discussione e ci si confronta con l’esperienza di fede.

3) Il territorio perugino offre diverse iniziative al riguardo lasciate però alla disponibilità e ai talenti dei singoli. Le iniziative però sono poco seguite; il sacerdote ha sempre poco tempo per i parrocchiani (con le unità pastorali è sempre più ampio il territorio da seguire e le “anime” da aiutare, con poco aiuto qualificato), è ormai divenuto un burocrate, un amministrativo diciamo quasi un “amministratore delegato di una azienda”….si deve occupare di tutto ( sono pochi i laici che lo aiutano) rimanendo loro poco tempo per evangelizzare.

4) L’Amoris Laetitia è un punto di riferimento luminoso anche in questo ambito, come in altri. È una guida per i Consigli Pastorali in varie occasioni e anche per le equipé che lavorano con i futuri sposi o con i genitori dei battezzandi. È utile anche per le coppie di maggiore esperienza, che comunque hanno sempre bisogno di essere seguite e di sentirsi parte attiva della comunità cristiana.
Non tutte le realtà parrocchiali però la conoscono a fondo, anzi in alcune unità pastorali è risultata quasi sconosciuta.

5 – FEDE E VITA/2

1) La nostra società non contempla il riposo, molti vedono nel lavoro l’obiettivo più importante del vivere. Il lavoro viene visto come status symbol; solo se produci sei qualcuno e anche in base al lavoro che fai meriti più o meno rispetto. Il riposo per questo è visto come perdita di tempo sia per i cristiani che per i non credenti mentre potrebbe essere un momento di riflessione e introspezione.

2) La disoccupazione e il lavoro nero sono le piaghe della nostra società. A causa della difficoltà economica anche chi vive cristianamente si trova nella condizione di sottostare a questi fenomeni. I giovani sono i più svantaggiati e sfiduciati in questa situazione perché si ritrovano sfruttati e non valorizzati. I laici credenti dovrebbero cercare di operare rispettando le leggi e la legalità.

3) E’ palese che non viene più rispettato nemmeno il giorno del Signore, la domenica, basti pensare che tutte le attività commerciali sono aperte in questo giorno. In alcune occasioni sono stati organizzati momenti di comunione fraterna per socializzare all’interno della comunità interparrocchiale in cui c’è stata una discreta partecipazione. Il problema riscontrato è che di idee e iniziative da svolgere ce ne sarebbero tante manca solamente la “ forza lavoro” disposta a mettersi in gioco e ad aiutare a realizzarle.
Rispetto al tempo libero dei giovani ė urgente non lasciare i ragazzi soli, visto che hanno sempre meno occasioni di relazioni vere e pienamente umane. Il riposo non è divertimento, ma va comunicato il pieno senso del 4° comandamento, ringraziare il Signore per ciò che si vive e sapersi riposare, stare insieme, perché riconciliati con quello che si ė vissuto in passato e si vive nella settimana.

6 – FEDE E VITA/3

1) Partiamo dalla consapevolezza che tutti siamo fragili, per alcune categorie di persone è più evidente, come anziani, immigrati e giovani in difficoltà, ma esistono fragilità invisibili che si manifestano attraverso gesti eclatanti per la loro drammaticità come il Suicidio e/o violenze e omicidi familiari.
Si sono individuati due fattori prevalenti:
1. Le persone sono sole, la famiglia e le persone sono assoggettate alla cultura dell’individualismo. 2. Sistema oggi economico e finanziario è una macchina senza pietà ma se perdi il ritmo e per
qualsiasi motivo le aziende o le persone sono in difficoltà vengono tagliate fuori, si verifica un fenomeno di esclusione dal circuito economico e sociale che spesso porta alla povertà e alla emarginazione. Con una conseguente MANCANZA DI SENSO della VITA.
Per le fragilità serve uno “sguardo di vicinanza” (EG) ma serve nei singoli cristiani, non si può trasformare tutto in una associazione di beneficenza. Dobbiamo riscoprire il senso della Chiesa non come organizzazione assistenziale portando questo senso nelle istituzioni, non sostituendosi. L’atteggiamento prevalente dei singoli diventa evitare il contatto personale e diretto, favorendo il servizio.
Ci sono inoltre fragilità non materiali che sono meno visibili e che richiedono una rete molto estesa, fuori dalle Parrocchie, che può passare solo dalle famiglie e dalle relazioni.
E’ in aumento la povertà culturale con una omologazione al negativo e al basso.
I poveri sono i giovani, le fragilità sono spaventose, manca la capacità di affrontare la vita, sono infantilizzati. I Padri sono una situazione drammatica, in alcune realtà dormono nelle macchine.
circola un atteggiamento di attenzione comprensione ma non condivisione, in alcune realtà organizzate ci sono sportelli di ascolto, empori della carità, animazione per i giovani, molti sacerdoti sono accoglienti e disponibili, ma ci sono realtà isolate e in molte parrocchie non c’è più il parroco. in realtà manca l’aiuto nella prossimità: il vicino, quello della porta accanto, come ci insegna la parabola del buon samaritano.
Viviamo in una Società dove è venuta meno la dimensione spirituale della vita. Preghiera grazia di Dio e Sacramenti, Affinare il cuore e lo sguardo, l’altro non è un fastidio. Riscoprire la dimensione missionaria. In alcune parrocchie della diocesi c’è una accoglienza e presenza di alcune comunità di fedeli che si occupano di questo, offrono da anni disponibilità per operare con gli anziani, ci sono centri di ascolto, Centri di Aiuto alla vita presenti ma un po’ carenti, per l’alta richiesta.

2) Quanti feriti bussano? Molti alla porta del parroco (ormai solitamente non residente) anche non credenti, ma prevalentemente si presentano persone che hanno problemi economici.

3) Difficilmente intorno ai parroci c’è una rete strutturata di famiglie per portare avanti relazioni con chi ha difficoltà non economiche, anzi anche le famiglie svolgono ruoli parrocchiali legati ai sacramenti. e neanche chi frequenta la parrocchia condivide i problemi che vive con i “fratelli”
Va ricostruita la comunità cristiana che vive con gioia, con una rete di famiglie intorno al parroco… altrimenti siamo tutti soli di fronte a mille problemi del mondo e siamo tutti nel “fare”… e se uno è immerso “nel fare” non c’è tempo per le relazioni.

7 – FEDE E BENE COMUNE

1) Se da un lato l’attenzione alla dimensione “sociale” non è mai mancata, negli ultimi anni, in particolare con il pontificato di Papa Francesco, la tematica del povero, dell’ultimo, del debole è tornata prepotentemente in primo piano. Il tema dell’attenzione verso l’altro è dunque (da chi più, da chi meno) abbastanza sentito; il passo da compiere è quello di rendere tale attenzione operosa e fattiva nella comunità. L’attività di evangelizzazione locale ha il compito quindi di concretizzare e focalizzare nelle necessità della comunità parrocchiale tali attenzioni, più o meno diffuse.
L’aspetto “sociale” è spesso visto e vissuto come più operativo e fattivo che spirituale e/o propriamente evangelico; ci si pone più il problema del “come” piuttosto che del “perché” aiutare. Potrebbe pertanto risultare utile approfondire il tema evangelico dell’operosità verso gli altri, in modo che tale cammino di consapevolezza possa aiutare, da un lato, a trovare nuove forze e, dall’altro, a fornire nuovi e migliori strumenti e capacità a chi già opera.

2) Il servizio delle Caritas è attivo da decenni e negli ultimi anni l’offerta si è notevolmente arricchita con gli Empori. In alcune realtà si è più volte cercato di raccordare il servizio Caritas con gli altri servizi parrocchiali (in particolare con quelli di pastorale giovanile, sia all’interno dei cammini dei gruppi giovanili sia in occasioni di alcuni “momenti forti” come le raccolte viveri, che si effettuano per l’OMG da oltre 10 anni). Il rischio di un eccessivo “operativismo”, che tenga poco conto l’evangelizzazione della e alla carità, è un rischio sempre presente e connaturato sotto certi aspetti con la natura del servizio; negli anni sono però stati intrapresi degli incontri di formazione degli operatori del servizio Caritas che hanno aiutato non poco sotto tale profilo.
In altre realtà, dove sono presenti nel territorio Caritas, Centri d’Ascolto, associazioni di volontariato, cooperative sociali, uffici ASL nonché Uffici della Cittadinanza del Comune, a volte si corre il rischio di svolgere il ruolo di “smistatori” tra un servizio e l’altro.
È’ sempre importante dunque tenere focalizzata la persona in necessità, piuttosto che le sue problematiche, sia per dare una vicinanza umana e cristiana (non solo operativa) a chi ne ha bisogno, sia per evitare che il servizio si trasformi in una routine per chi lo compie; piuttosto per cercare di vivere e capire la ricchezza dell’incontro umano che il servizio stesso ci offre.
Da valutare le modalità più opportune per promuovere e dare visibilità e risalto alle attività svolte; andrebbe elaborata una strategia di valorizzazione che, da un lato, faccia comprendere alla cittadinanza il ruolo importantissimo che svolgono le struttura diocesane e che, dall’altro, tuteli l’anonimato, la privacy e la dignità di chi vi si rivolge.

3) L’impegno parrocchiale è spesso rivolto alla risoluzione delle problematiche delle persone che quotidianamente si rivolgono ai Centri d’Ascolto, alle Caritas, agli Empori.
Se da un lato, ovviamente, le parrocchie non possono da sole pensare di intervenire “a monte” delle problematiche sociali e politiche che si presentano, dall’altro una conoscenza delle dinamiche sottostanti, tramite l’indirizzo della Diocesi e/o la collaborazione con le istituzioni del territorio (Uffici della Cittadinanza, ASL, etc…), delle associazioni e delle cooperative sociali porterebbe un arricchimento degli operatori e sicuramente una maggiore efficacia nel servizio.
Manca, probabilmente, (sia a livello parrocchiale che diocesano) una consapevolezza e una spinta all’azione caritatevole e sociale a livelli anche diversi rispetto a quelli “ecclesiastici.
E’ comunque fondamentale tornare ad affermare con forza che la persona è il bene comune per eccellenza, è quindi urgente la necessità di istituire scuole di formazione politica.

Contributo della diocesi di Spoleto-Norcia

SINTESI  DEL  LAVORO DI DISCERNIMENTO IN PREPARAZIONE ALLA ASSEMBLEA ECCLESIALE DELLA REGIONE UMBRA

 

  1. VIVERE LA CHIESA – per una fede celebrata e condivisa: tessuto delle comunità, senso di appartenenza, qualità delle celebrazioni.

 

Il senso di appartenenza alla Chiesa si manifesta anzitutto nella gioia di esserlo; nella gioia di essere in questa nostra Chiesa; nel guardarla e sentirla con amore; nel vivere la sua vita; nel condividere le sue fatiche e le sue difficoltà. Sicuramente possiamo rendere grazie a Dio perché si è avviato un processo, che raccogliendo il frutto del  cammino ecclesiale fatto fino ad ora, si sta muovendo nella direzione di una maggiore consapevolezza del senso della diocesi, di una più evidente e comunque ricercata, anche se con fatica, “diocesanità” da parte dei presbiteri e dei diaconi, dei religiosi e delle religiose, delle parrocchie con le loro varie associazioni. In molti sta crescendo la consapevolezza che “essere cristiani significa appartenenza alla Chiesa. Il nome è “cristiano”, il cognome è “appartenenza alla Chiesa”.” (papa Francesco). La scelta della pievania come organismo di comunione e di collaborazione tra più parrocchie vuole favorire proprio questo senso vivo di appartenenza alla Chiesa

La collaborazione fattiva, la condivisione di responsabilità e di momenti significativi tra tutti i membri della comunità sono i principali segnali che evidenziano il senso di appartenenza alla diocesi, alla pievania e alla parrocchia. La visita pastorale dell’Arcivescovo ha favorito, rafforzato e fatto crescere nelle comunità parrocchiali e nei singoli fedeli il legame con la diocesi e l’importanza della partecipazione alla sua vita con i suoi vari momenti e celebrazioni. In questa direzione è stata di grande incidenza l’Assemblea sinodale 2016-2017. Di fatto si comincia a comprendere, per via esperienziale, che la partecipazione alla vita diocesana, lungi dall’indebolire la vita parrocchiale, al contrario la rafforza e la motiva  dandole un respiro ampio e vitale che garantisce la tenuta e il futuro delle stesse comunità.

Abituati a farlo e a vederlo forse non ci rendiamo conto e non sappiamo a sufficienza rallegrarci del fatto che ogni domenica molti cristiani, anche se con una percentuale che tende a diminuire e in mezzo alle tante difficoltà che derivano dalla conformazione geografica del nostro territorio e dalla complessa organizzazione della vita sociale, familiare e personale, continuano a radunarsi per la celebrazione eucaristica domenicale. Diverse comunità hanno certamente migliorato, con l’opportuna preparazione, la qualità delle celebrazioni domenicali rendendole dignitose e capaci di toccare la vita e il cuore delle persone.

Uno sguardo d’amore sulla nostra Chiesa non può tuttavia nascondere le debolezze e le resistenze relative al senso di appartenenza ecclesiale; se fosse così non sarebbe  uno sguardo di sincero e vero amore.

Tale realismo infatti è fondamentale per capire le ragioni delle  fatiche e  delle stanchezze nel portare avanti insieme il cammino diocesano sia in ordine alla comunione ecclesiale che per quanto riguarda la condivisione pastorale.

Infatti è ancora debole e spesso non ritenuto importante e necessario il senso di appartenenza alla diocesi; in alcune situazioni sembra quasi essere presente una sorta di “antagonismo” con la diocesi per cui lo stesso Vescovo è visto più che come pastore e centro essenziale di comunione e di vita, come un amministratore  o un “dirigente dell’azienda-chiesa”. Molti fedeli e diverse comunità sono ancora convinti che “ parrocchiale ” è meglio e più bello che “diocesano”. E’ certamente più sentito il senso di appartenenza alla parrocchia che alla pievania da molti ancora non conosciuta a sufficienza. Campanilismo e autoreferenzialità delle parrocchie sono spesso tra le principali cause che rallentano il cammino di rinnovamento della vita e della pastorale.

Di riflesso si fa ancora fatica a condividere il criterio pastorale della “eucaristia parrocchiale” che raduna le comunità minori che compongono la parrocchia. Il principio del “meno messe e più messa” , che meglio si dovrebbe dire “ meno messe e più assemblea (cioè esperienza di Chiesa) “ da molti condiviso e attuato, da altri anche se condiviso teoricamente, di fatto non viene messo in pratica. La gradualità, come rispetto della sensibilità e delle esigenze delle piccole e a volte disagiate comunità, appare ancora un motivo per non attuare un vero rinnovamento in tal senso.  Per questo motivo abbiamo ancora celebrazioni domenicali improvvisate, poco significative della fede gioiosa nel Signore risorto, espressive più di un certo individualismo religioso  che dell’essere e del fare chiesa, povere di canto, di ministeri e di parola che parli alla vita. Poche parrocchie hanno un gruppo liturgico che settimanalmente si raduna con la convinzione che l’eucaristia domenicale è il momento fondante e fondamentale della parrocchia. Forse dipende anche dalla qualità delle celebrazioni, oltre che da altri fattori di tipo sociale, culturale e religioso, la scarsa partecipazione dei fedeli alla messa domenicale.

La domenica, che trova nell’eucaristia il momento che la qualifica e la fa essere un giorno diverso dagli altri giorni, da molti cristiani non è più considerata giorno di riposo, né di ringraziamento a Dio, e nemmeno giorno della famiglia e delle relazioni; è diventato un giorno come gli altri, giorno dello agonismo sportivo, del consumismo e dello svago.

In ordine al senso di appartenenza alla Chiesa, la maggior parte dei laici fanno fatica ad assumersi impegni seri e continuativi o perchè troppo presi da impegni lavorativi o perché non si sentono all’altezza del compito loro affidato, e certamente perchè spesso è mancata e manca la necessaria formazione; a volte avvertono la mancanza di un clima sereno nella parrocchia, a volte non trovano spazio adeguato a causa di un clericalismo tardo a morire, a volte il deterrente deriva dalla presenza di un gruppo più o meno consolidato che tende ad accentrare su di sé le attività e i servizio senza dare spazio all’ingresso di nuove persone. Si riscontra anche una conoscenza superficiale delle persone e dei loro carismi, per cui queste vengono invitate a fare cose diverse da quelle per cui sono portate e formate; anche l’avvicendamento dei sacerdoti a volte compromette la continuità degli impegni assunti.

In questo contesto i consigli di partecipazione, meglio di comunione, è cioè i consigli  pastorali e quelli degli affari economici nella parrocchia e i consigli pastorali nella pievania, eccetto poche realtà, fanno fatica ad esistere e a lavorare; spesso sono soltanto formali e non hanno una ricaduta sulla vita delle comunità.

Spesso avvertiamo la mancanza del senso della comunità.  Mancando un vero senso della comunità, tutto resta delegato al sacerdote, per il quale tuttavia resta difficile trasmettere la fede e il senso della gioia da solo. In tal senso si avverte la mancanza di adulti consapevoli e attivi all’interno delle comunità ecclesiali; essi sono ovunque pressoché latitanti; in tal modo anche i figli fanno fatica ad avvertire il senso di cosa sia una comunità cristiana. Si nota inoltre che le comunità sono spesso frastagliate anche a causa del moltiplicarsi delle Messe domenicali; il frazionamento delle realtà locali che è un dato di fatto, spesso trova un’unica risposta nell’assicurare tante Messe per accontentare tutti; queste tuttavia vedono la partecipazione di pochissime persone e ciò non favorisce di certo né la dignità delle celebrazioni né lo sviluppo di un senso di comunità che pure è fondamentale. Gli stessi Sacramenti diventano più una festa privata che una festa della comunità.  Spesso manca alle nostre celebrazioni la gioia del radunarsi che ha come conseguenza la pesantezza della liturgia nella quali manca  il senso della fraternità,della vicinanza e della festa: troppo spesso le celebrazioni non sono “attrattive e attraenti”; prevale una certa aridità che coinvolge tutti, a cominciare dai preti; le stesse omelie spesso mancano di gioia e non parlano alla vita delle persone, sono piuttosto paternali, in esse manca l’annuncio principale, cioè che Dio ci ama. Tutto ciò spiega il motivo per cui la stragrande maggioranza dei cristiani  disertano la liturgia domenicale e un certo numero di quelli che vanno le vivono ancora come un “dovere”.

 

 

  1. GLI ADULTI E LA FEDE – Per una fede pensata e adulta: priorità degli adulti, problema dei linguaggi.

 

Abbiamo bisogno anzitutto di rendere grazie a Dio perché nella nostra Chiesa la Parola di Dio “ cresce e si sviluppa”   …corre , pur in mezzo a tante fatiche e difficoltà. E’ necessario prendere atto dell’impegno quotidiano dei presbiteri e dei diaconi, dei religiosi e delle religiose, dei catechisti e dei vari gruppi, degli adulti e delle famiglie che soprattutto nelle parrocchie annunciano e testimoniano la parola Dio con fedeltà e impegno, con gioia e pazienza, non vedendo spesso immediatamente i risultati di un servizio alla Parola sempre bello ma anche sempre molto esigente. Cresce il numero e la qualità dei laici che stanno maturando una  coscienza più viva del loro essere nella Chiesa diocesana, e quindi nella pievania e nella parrocchia, protagonisti responsabili della vita e della vitalità delle comunità cristiane . Il loro desiderio di formazione e la loro richiesta di maggiore coinvolgimento nell’annuncio del Vangelo, nella celebrazione liturgica, nella promozione della carità e nella partecipazione agli organismi di comunione ( consigli ) sono espressione di una crescita del senso di appartenenza alla Chiesa e alla diocesi, e quindi sono una segnale che va colto con gioia e al quale occorre dare una risposta significativa e robusta.

Il cammino ecclesiale che viene da lontano, ma che in ogni generazione si qualifica e si colora di scelte e sottolineature maggiormente rispondenti ai segni dei tempi, ci chiama a custodire e a rinvigorire in ordine all’annuncio della Parola, quanto in questi ultimi anni abbiamo posto come impegno pastorale prioritario: la lectio divina, la predicazione e in particolare l’omelia, il coinvolgimento delle famiglie nella trasmissione del vangelo alle nuove generazioni, il dialogo con gli uomini e le donne del nostro tempo che richiede una capacità di ascolto non sempre facile e un linguaggio a volte difficile da trovare, la missione tra la gente andando per le strade ed entrando nelle case.

In questo sguardo alla nostra Chiesa colpisce fortemente la presenza e l’attaccamento del popolo alle varie forme di pietà popolare che indubbiamente conservano un forte richiamo e manifestano una religiosità fatta di calore e di emozioni, spontaneità, immediatezza, e a volte di commozione. Emerge  tuttavia la necessità di riempire e restaurare “questo vaso” antico con la novità del Vangelo e con le ricchezze e le esigenze della parola di Dio.

L’assemblea sinodale, celebrata nel 2016-2017,  e il lavoro di preparazione all’Assemblea regionale  hanno tuttavia riscontrato un certo affaticamento, una certa stanchezza e a volte una evidente o velata rassegnazione nell’azione evangelizzatrice delle comunità. Tutto questo rischia di vanificare ogni progettazione pastorale, di nascondere e quasi rinnegare la gioia che viene dal Vangelo e dal suo annuncio, e quindi di non essere in grado di incrociare in modo significativo i percorsi e le domande degli uomini e delle donne del nostro territorio.

E’ abbastanza evidente che lo spessore della fede degli adulti delle nostre comunità è spesso debole: la fede è per molti devozionale, funzionale a ricevere i sacramenti, sganciata dalla vita vissuta. Emerge una fede “servita” più che una fede cercata e desiderata.  La lectio divina è partecipata da un numero ristretto di adulti forse anche perché non è proposta per quello che è, e cioè una lettura orante della Parola di Dio. La stessa omelia che rimane il nutrimento della fede per la maggior parte dei fedeli adulti tante volte invece di “riscaldare il cuore” lo appesantisce o lo lascia tiepido e distratto, e rende pertanto pesante sia l’ascolto che  la conseguente pratica della Parola ascoltata.

Gli adulti risultano essere in maggioranza quasi del tutto non evangelizzati, presi dalla vita quotidiana che non si interrompe mai nei suoi ritmi ripetitivi e frenetici. A parte alcune esperienze particolari e occasionali proposte agli adulti ( incontri dei genitori durante il cammino catechetico dei figli, un percorso diocesano di formazione per adulti partecipato da un piccolo gruppo,il cammino dei 10 comandamenti, itinerari di pochi movimenti) comincia ad essere sentito come una urgenza, un itinerario di fede per gli adulti che sia strutturato, sistematico e prolungato, e riparta da primo annuncio della fede. Tutto, sia per diversi preti che per molti laici, sembra troppo.

In questa situazione una delle cause maggiormente determinanti è il linguaggio, o meglio i linguaggi. A volte prevale un linguaggio sociologico, altre volte quello spirituale se non devozionale, come pure un linguaggio teologico-scolastico o banalmente discorsivo. Il limiti maggiore  è quello di un linguaggio a volte superato proprio nei termini, teorico e disincarnato che quindi non tocca la vita delle persone e non fa emergere le domande  e gli interrogativi importanti che comunque le persone si portano dentro e che attendono una risposta di senso.; prevale il pensato-teorizzato sul vissuto.

Per quanto riguarda gli adulti  non credenti o più o meno distanti dalla fede, non solo mancano spesso i luoghi e i momenti di confronto che comunque sono dati dalla vita quotidiana e dalle relazioni, ma soprattutto non abbiamo laici cristiani sufficientemente formati sia dal punto di vista della fede sia nella capacità di guardare e leggere in maniera “attuale” e “contemporanea” la realtà spesso complessa e pluralista.

 

 

  1. I GIOVANI E LA FEDE –  Per una fede “interessante” trasmessa alle nuove generazioni: coraggio innovativo.

 

Facciamo fatica ad ascoltare le nuove generazioni, ad incrociare i loro percorsi di vita, a lasciarci interrogare dalle loro domande e dai loro sogni, come anche dalle provocazioni dei loro discorsi e dei loro atteggiamenti: in rapporto a questo a volte ci sentiamo spiazzati  oppure rifuggiamo dal confronto. Di conseguenza diventa difficile e comunque faticosa ogni proposta vocazionale.

Per dare una risposta al non facile problema dell’educazione alla fede delle nuove generazioni, fermo restando che rimane “ un cantiere sempre aperto per una costruzione sempre nuova”,  danno  sentiamo che ci manca ancora la capacità di ascoltare i giovani prima di dare loro le risposte creando spazi di libero confronto; di conseguenza è necessario far partire qualsiasi proposta vocazionale dalle domande di senso della vita.

I giovani delle nostre comunità hanno molte paure: paura di non essere amati, di non essere considerati. Inoltre tengono in grande valore l’esteriorità, i “like”. C’è poi  la paura della precarietà: la mancanza di lavoro e di prospettive rendono generalmente molto complesso l’affidarsi e il fidarsi per i giovani; e da parte delle comunità c’è spesso la difficoltà all’ascolto senza pregiudizi o preconcetti.

In ambito ecclesiale si nota spesso una mancanza di luoghi dove incontrare i giovani, specie dopo il percorso della iniziazione cristiana. In diverse pievanie o parrocchie della diocesi esistono oratori o luoghi di incontro che svolgono, in sintonia con il Centro diocesano di pastorale giovanile, un certo servizio ai giovani con un percorso che prevede incontri periodici di vario tipo. Insieme ad un certo clima di gioia e di impegno emerge però a volte una certa “autoreferenzialità” delle esperienze quando invece sarebbe quanto mai necessaria l’apertura e il coinvolgimento negli altri settori della pastorale parrocchiale e diocesana. Va però tenuto presente che l’età è più adolescenziale che giovanile e questi luoghi sono oggi sempre meno attrattivi e a volte isolano rispetto agli altri giovani che non partecipano. E non è di grande consolazione, anzi di maggiore preoccupazione, il fatto che sono in crisi anche i luoghi di incontro e di aggregazione in ambito culturale, politico, sportivo e altro.

Emerge nelle nuove generazioni la mancanza, o meglio la fragilità, di una base umana che, in quanto tale, sta a monte di ogni proposta, e necessariamente condiziona l’annuncio e la trasmissione della fede. A questo si unisce di conseguenza una generale mancanza di interessi forti alimentata  da

una costante “catechesi al contrario”. Forte è il narcisismo di cui non soffrono soltanto i giovani ma anche gli adulti. Facciamo grande fatica a far incontrare le giovani generazioni con la persona di Gesù Cristo facendolo percepire come “interessante, affascinante, l’unico capace di rispondere alla ricerca di amore e di senso della vita”.Sicuramente gli annunci di fede sono stati piuttosto aridi e spesso superficiali, concettuali e poco esperienziali. È passata l’idea che la fede sia più un insieme di regole e concetti che non un esperienza di una Persona.

In tutto questo è quasi “drammatico” il problema del linguaggio che è lontano mille miglia da quello dei giovani.

Dall’altro lato si riscontra una grande difficoltà di crescere e di conseguenza di prendersi responsabilità. In ciò mancano spesso esempi di maturità da parte degli adulti che sono fondamentali perchè nasca nei giovani il desiderio di impegnarsi, mettersi in gioco, crescere con una progettualità.

Così affaticati e spesso  incerti e confusi  i giovani sono distanti dalla consapevolezza e dalla gioia  di  evangelizzare gli altri giovani; coloro che poi intraprendono un cammino di fede e si assumono l’impegno di annunciarla e testimoniarla vengono  spesso isolato dai coetanei. Manca al contempo una buona formazione per gli adulti che porti alla valorizzazione e che faciliti questo impegno dei giovani all’interno delle comunità; spesso i pochi giovani “impegnati” nelle comunità ecclesiali vengono poco ascoltati e anche tenuti in scarso conto; gli si fa fare di tutto ma non vengono mai spronati o coinvolti nelle decisioni da prendere. Non si può certamente generalizzare perchè in varie  comunità i giovani vengono valorizzati e accompagnati, con importanti esperienze significative  e impegni importanti; quando questo avviene allora i giovani diventano motivo di stimolo per gli adulti e riferimento per coetanei in difficoltà, che non di rado, seppur lontani dalla fede, vedono in questi giovani un aiuto sicuro nei momenti oscuri.

Le comunità e in particolare gli adulti fanno invece fatica a dar loro fiducia lasciandosi condizionare dal fatto che “ i giovani sono fragili”  Non riusciamo perciò a cogliere le attese e i sogni dei giovani perché siamo più intenti a proteggerli. Così facendo però  impediamo loro di uscire allo scoperto, di assumersi responsabilità, di scoprire quale è la loro strada, la loro vocazione. La volontà di proteggerli e controllarli da parte degli adulti è oggi giunta al punto che sogni, attese e vocazioni sono soffocate ed etero dirette dagli adulti stessi.

La percezione della vocazione al ministero ordinato sembra oggi leggermente migliorata; il fatto che i nostri seminaristi oggi partecipino visibilmente alla vita diocesana e si vedano spesso insieme, ha certamente favorito un miglioramento della suddetta percezione anche presso gli altri  i giovani, i quali se non altro sono portati ad interrogarsi per conoscere questa possibilità di vita. Anche il fatto che i seminaristi abbiano iniziato a proporre incontri con le varie realtà parrocchiali della Diocesi sembra aver favorito un miglioramento. Parimenti, le preghiere per le vocazioni, il pellegrinaggio alla Madonna della Stella ogni primo sabato di ogni mese e diverse iniziative hanno reso più accessibile a tutti il discorso intorno alla vocazione al ministero ordinato che di certo oggi sembra maggiormente sentito. Fa invece più difetto la percezione della vocazione alla vita religiosa, specie femminile, anche forse per la mancanza di visibili iniziative per farla conoscere e per la mancanza di un numero consistente di comunità religiose femminili nel nostro territorio diocesano.

 

 

  1. FEDE E VITA /1 – Per una fede capace di plasmare la vita: gli affetti.

 

Sappiamo che la realtà odierna è una realtà in cui si fa sempre più strada il disinteresse per l’altro; è una società che sfugge dalle responsabilità e dagli impegni; una società povera culturalmente e pervasa dal culto dell’apparenza; una società “economica” più che “umana”, una società “individualistica” più che “interessata al bene comune”; una società “relativista” più che “fondata sulla verità dell’uomo”. Di conseguenza una società con molti “ nervi scoperti “ riguardanti il rispetto della vita umana (concepimento, aborto, disabilità, fine vita), la centralità della famiglia ( sostegno alle famiglie e alla natalità, nuove forme di convivenza e di coabitazione, separazioni, divorzi), la visione della sessualità e dell’affettività (soprattutto nelle nuove generazioni), la priorità del bene comune nella politica ( personalismi, populismi e corruzione), la dignità, la necessità e la stabilità del lavoro (condizione indispensabile per la dignità umana e per la vita familiare). Parlare di affetti vuol dire riconoscere che la qualità della vita dipende dalla qualità delle relazioni; e questo vale sia sul piano umano che sul piano della fede.

Facciamo fatica a vivere l’importanza della presenza dell’altro e del contatto diretto, anche informale e non per questo meno vero e meno efficace, in tutte le situazioni e in tutti i luoghi in cui il cristiano si relaziona con gli altri, aprendosi al dialogo con rispetto e amore, e favorendo il confronto con i “lontani” e anche con chi pensa diversamente la vita, l’amore, la società. Facciamo fatica a credere davvero che il bene e l’amore, qualunque persona lo compia o lo viva, viene da Dio ed è secondo il suo progetto.

Il tema dell’affettività nelle nostre comunità è ancora un tabù al momento dell’annuncio, come se il Vangelo non lo toccasse affatto. Con i giovani qualcosa in proposito si cerca di fare ma spesso ciò avviene in modo collaterale, fuori certamente dal contesto dell’annuncio evangelico, come se il tema attenesse alla mera formazione umana e non toccasse la vita di fede.

Riconosciamo che come Chiesa abbiamo fortemente delegato la formazione all’affettività, con la conseguenza che le altre istituzioni che se ne occupano non sempre veicolano un insegnamento che collima con quello della Chiesa. Manca in generale tra gli operatori pastorali e anche tra i sacerdoti una buona formazione sul tema. Ci resta difficile offrire agli adolescenti e ai giovanissimi un percorso di educazione all’affettività e alla sessualità con la convinzione che una sana visione e impostazione di queste due dimensioni fondamentali della vita determina in maniera forte la costruzione dell’uomo e del cristiano; diversamente tutto diventa problematico e a volte drammatico.

La percezione che inoltre si registra tra i più, è che i cristiani e la Chiesa giudichi ancora in modo impietoso e sospettoso la sessualità. Non di rado i fedeli sentono da parte dei sacerdoti, specie in confessione, un certo giudizio e una certa condanna, atteggiamenti di certo non rispondenti al sacramento della riconciliazione e al ruolo balsamico che esso dovrebbe ricoprire nella vita di chi ha vissuto anche con sofferenza il peso del peccato.

Uno dei grandi problemi che oggi ci troviamo ad affrontare sia come comunità cristiana che società è quello dell’egoismo degli affetti. L’indipendenza e la sua ricerca spasmodica prevalgono sulla condivisione della vita. L’amore è percepito non come dono di sé all’altro ma come possesso “a tempo” dell’altro. Da questa impostazione di diffidenza verso i legami stabili deriva l’aumento dei cosiddetti single. Altro problema che si ravvisa è quello delle cosiddette famiglie allargate, frutto di quell’instabilità delle scelte che investe anche e soprattutto la vita di coppia e matrimoniale. Questo deriva certamente dalla mancanza di maturità affettiva; non si sa dare un nome ai sentimenti e molti di essi vengono persino scambiati per amore, anche se ne costituiscono l’esatto opposto: è  il caso del possesso, del dominio sull’altro e della ricerca del piacere personale.

Tra l’altro l’elevato numero di separazioni creano anche attriti tra genitori che non di rado ricado sui figli indebolendoli o segnandoli negativamente nell’affettività fin dai primi anni di vita.

Gli ambiti principali in cui si riscontra un impegno della diocesi nell’evangelizzazione degli affetti sono da un lato i corsi prematrimoniali e per fidanzati che certamente offrono alle coppie una buona opportunità e sono accettati ormai volentieri, ma che lasciano il discorso in sospeso; dall’altro si è tentato un percorso per i “separati” ma con scarsi risultati. Anche i movimenti offrono sia ai giovani che agli adulti proposte di cammini in tal senso..

Spesso l’Amoris Laetitia è pressoché ignorata.  Alcune iniziative sono state fatte: dagli  incontri di catechesi tenuti dai sacerdoti della Diocesi sulla stessa esortazione apostolica all’istituzione dei già citati corsi per separati. Pur tuttavia tanto i parroci quanto i fedeli impegnati spesso risultano poco formati ad affrontare i delicati temi e problemi presi in analisi dal Papa. Se qualcuno esprimesse il bisogno di un aiuto su questa materia, non di rado troviamo difficoltà a dare

risposte competenti ed in linea con il documento. Manca in generale apertura di cuore ed essa non

viene spesso nemmeno favorita, a cominciare dai sacerdoti stessi.

Facciamo fatica a mettere in atto una rinnovata ( nelle forme, nei tempi e nei contenuti ) evangelizzazione sul sacramento del matrimonio che mostrando la bellezza, la bontà e anche la fragilità dell’amore umano aiuti le nuove generazioni anzitutto a non avere paura di sposarsi, a progettare davvero il loro matrimonio e a non spaventarsi delle difficoltà e delle fatiche che accompagnano sempre la vita umana; in tale evangelizzazione rientra l’educazione all’affettività e alla sessualità dei giovanissimi perché le visioni distorte, le esperienze sbagliate e le ferite ricevute in questa età pregiudicano seriamente il resto della vita.

Facciamo fatica e a volte resistenza ad accogliere davvero, secondo lo spirito dell’Amoris laetitia quanti hanno visto fallire il loro matrimonio e ne portano le ferite avendo chiaro che le situazioni non sono tutte uguali e che quindi il fallimento non pone tutti nella stessa condizione ecclesiale. Se la legge morale non può che essere oggettivamente valida per tutti, la valutazione morale poi non può che essere personalizzata: trattare tutti allo stesso modo diventa ingiusto. Non è ancora maturato, sia nei pastori che nei laici, un nuovo approccio ecclesiale. 

 

 

  1. FEDE E VITA /2 – Per una fede concreta e incisiva: il lavoro, il tempo libero.

 

Nella nostra realtà sociale e quindi anche ecclesiale sembra che oggi il lavoro venga vissuto come un’ossessione, non solo per chi effettivamente lavora ma anche per coloro che sono preoccupati che i figli e i nipoti non avranno lavoro. Inoltre molti fanno un lavoro che non li soddisfa o che è precario. Il lavoro è l’ossessione di oggi. Quanto al riposo o è minimo, anche a causa della reperibilità continua resa tale dalle e-mail e dai cellulari, oppure diviene un altro stress.

Di lavoro si parla come di un problema; non è più un valore perché gli è stata tolta la sua connaturale dignità; tutto è letto e si sviluppa nell’ottica del mero profitto e questo crea frustrazioni che sviliscono anche il poco tempo libero che si ha a disposizione. La sola logica del profitto fa si che addirittura le donne debbano arrivare a nascondere la maternità o lavorare il fine-settimana per andare avanti. L’aumentare del bisogno di lavoro fa diffondere, specie tra i giovani, l’abitudine alla precarietà legata poi a scarsi pagamenti e ad uno sfruttamento istituzionalizzato. Questo fa si che i giovani programmino tutto in vista del lavoro ma al contempo, data la crescente precarietà, non possono fare programmi a lungo termine. In più è diffusa la percezione che lo studio non renda in termini lavorativi e dunque preferiscono non studiare; anche lo studio è dunque letto in un’ottica meramente utilitaristica e non come un valore in sé.

Tutto questo genera una lotta tra poveri che porta a vedere in chi ha più successo, specie se stranieri, un nemico. La percezione tanto del significato del lavoro quanto del tempo libero è uguale tra credenti e non credenti.

Spesso si ravvisa la mancanza di una moralità del lavoro anche tra i credenti. Sono molti i casi di imprenditori e di lavoratori che si dicono credenti eppure sottostanno alla logica del lavoro nero. Se qualcuno prova a far vedere uno stile diverso viene “guardato male”.

A livello di disoccupazione le parrocchie cercano di agire in qualche modo, ad esempio coinvolgendo disoccupati in servizi retribuiti a favore della comunità. Le richieste di personale da parte di imprese rivolte alla Caritas Diocesana d’altra parte è scarsissima.

La dottrina sociale della Chiesa è largamente ignorata, anzi si ha la percezione che la Chiesa su questi temi  dica nulla o poco, anche a livello locale. Talvolta addirittura sembra che ci sia la connivenza con un sistema errato; si sente poco parlare di peccati sociali. In più non si fa nulla per condannare i favoritismi e le raccomandazioni, specie nel pubblico, ove la Chiesa sembra stare dalla parte di chi usa scorciatoie.

In Caritas si è cercato di fare qualcosa per aiutare chi non trova lavoro, favorendo l’accesso a vie lecite per l’occupazione; tuttavia non si ha il coraggio, anche a livello ecclesiale, di prendere le responsabilità per gli innumerevoli casi di raccomandazioni. Manca poi un coinvolgimento dei cattolici a livello politico e sociale, i quali portino avanti “con la schiena dritta” questi valori.

Purtroppo in questo ancora non ci sono troppe differenze con i non credenti.

Oggi la società non ha altra percezione del tempo libero se non quella consumistica ed evasiva. La società non offre altro se non centri commerciali e svago. Certo è vero che i centri commerciali danno lavoro ed è altrettanto vero che è molto complesso offrire, a livello parrocchiale e di  comunità cristiana, cose alternative “competitive”. In diocesi ogni anno è offerta la festa della famiglia; il centro giovanile diocesano offre varie occasioni di incontro festoso.  In qualche parrocchia sono stati fatti alcuni tentativi, di breve durata, per fare della domenica un giorno di incontro fraterno e distensivo che completasse  il senso della festa, che trova nell’eucaristia il suo centro, facendo ritrovare famiglie e ragazzi negli spazi parrocchiali. La breve durata di tali esperienze ha messo in luce che il problema è soprattutto culturale: la cultura prevalente non accetta l’idea che il tempo libero non sia solo per se stessi ma che si possa usarlo anche per gli altri, a servizio di una comunità. Sia per quanto riguarda il lavoro come anche il tempo libero rarissimi sono stati i momenti offerti dalla comunità ecclesiale per una riflessione chiara e intelligente.

 

 

  1. FEDE E VITA/3 – Per una fede risanante e consolante: le fragilità.

 

Nel nostro territorio l’atteggiamento più diffuso nei confronti delle persone ferite dalla vita è quello del giudizio morboso. Si vuol conoscere perché una persona si trova nella situazione di sofferenza che la caratterizza; questo interessamento non risulta il più delle volte finalizzato  alla solidarietà e dunque non si traduce in aiuto concreto.

Anche se c’è chi si impegna ad essere punto di riferimento e sostegno per chi mostra ferite e sofferenze, questi sono purtroppo una esigua minoranza.

Coloro che sono nella sofferenza sono molto poco incoraggiati a bussare alla porta della comunità. Da un lato la comunità stessa è chiusa o poco disposta all’accoglienza; prevale l’idea che si possa fare poco per risolvere i problemi e questo crea l’immagine di una comunità che fatica ad accogliere chi ha difficoltà.

Certamente è presente una certa distanza tra le domande, i bisogni e le attese che manifestano la fatica del vivere degli uomini e delle donne presenti nel territorio della nostra diocesi, e le risposte effettive che le comunità cristiane e i cristiani che le compongono riescono a dare.

Tuttavia non possiamo non mettere in luce i tanti segni e segnali di attenzione, di “compassione”, di “simpatia” e di “misericordia” che la nostra Chiesa con le comunità, soprattutto parrocchiali, che la compongono, ha messo e mette in atto continuamente, mostrando così la docilità allo Spirito che la sospinge e la sua attenzione “cordiale e fattiva” alle persone soprattutto ai più poveri, ai più sofferenti, e ai più in difficoltà.

Come non riconoscere i tanti uomini e soprattutto le tante donne, gli operatori delle caritas, i volontari a vari livelli, i ministri straordinari dell’Eucaristia che prestano servizio, quasi sempre gratuitamente, a quanti fanno fatica a vivere ?

Come non tener presenti le caritas parrocchiali, i centri di ascolto, i centri di distribuzione di beni di prima necessità, la Mensa della misericordia, l’OAMI, il Centro educativo dell’Opera di S. Rita di Roccaporena, le Lacrime, la presenza dei volontari nelle carceri…?

La caritas diocesana e le caritas parrocchiali o di pievania con il loro servizio costante, nascosto e umile, silenzioso e spesso difficoltoso, ormai da anni mostrano il volto “materno, paterno, fraterno e amicale” della nostra Chiesa.

Il riconoscimento pubblico del valore e della importanza di tale servizio apprezzato dalle strutture pubbliche di solidarietà, e  la collaborazione ricercata da esse, mostrano quanto  sia importante, preziosa e ormai insostituibile tale azione caritativa e solidale della diocesi nel nostro territorio.

Qualunque cosa si riesca a fare in ordine alla carità e alla solidarietà sappiamo bene che c’è ancora molta strada da fare e che non possiamo ritenerci semplicemente soddisfatti o arrivati: l’amore evangelico che Cristo chiede alla sua Chiesa è sempre un traguardo che ci sta davanti e che rimarrà davanti alle comunità cristiane sino alla fine della storia l’amore vero infatti è quello che non ha misura.

D’altronde uno sguardo realistico alla storia e alla società in cui viviamo, e un’attenzione intelligente e leale al nostro territorio ci permettono di scoprire e quindi di venire a contatto con le nuove forme di povertà che esprimono in molto più complesso e drammatico la fatica del vivere: anziani sempre più soli; adulti e giovani senza lavoro; famiglie vittime dell’usura; separati appesantiti dalle conseguenze affettive ed economiche della separazione; giovanissimi, giovani e adulti dipendenti da alcool, droga, divertimento trasgressivo, gioco; utilizzo schiavizzante delle nuove tecnologie e dei social net-work;  isolamento e chiusura dei giovani con conseguente limitatezza delle relazioni, visione pessimistica della realtà, orizzonti progettuali confusi e limitati, paura di affrontare i problemi, difficoltà nel chiedere aiuto o nel lasciarsi aiutare, non apprezzamento della vita fino al suicidio. Anche la pastorale familiare ha approntato servizi di ascolto per coppie in difficoltà ma anche in questo caso si ravvisa una carenza di collaboratori e la connessa incapacità di rispondere adeguatamente a tutte le problematiche che si presentano

Tutto questo chiama la nostra chiesa e le sue comunità a mettere in circolo le forze migliori, a ripensare in modo nuovo e coraggioso l’azione delle caritas parrocchiali, a interagire, nel rispetto delle rispettive finalità e dei differenti ambiti, con i vari enti, associazioni e istituzioni pubbliche per una azione maggiormente efficace e per quanto possibile risolutiva dei problemi. Tale collaborazione con l’assistenza sociale pubblica è presente ma non basta. Tra l’altro le numerose regole e leggi limitano spesso l’attività dei volontari. La sinergia con le strutture pubbliche si esprime principalmente nei centri di ascolto, ma si ravvisa la carenza di una loro diffusione capillare nel territorio, quando invece essi costituiscono un elemento fondamentale onde favorire suddetta collaborazione.

E’ dunque evidente che l’azione delle comunità cristiane non può ridursi, come non di rado avviene, alla distribuzione di cose, all’assistenzialismo e alla improvvisazione delle opere della carità. Occorre un’azione caritativa più intelligente e più capace anzitutto di ridare speranza alle persone in difficoltà e di mettere in atto processi di liberazione dalle cause soprattutto delle “nuove forme di povertà” che sono più complesse, insidiose, invasive e devastanti.

Per questa ragione spesso le nostre comunità, pur con la loro azione apprezzabile e generosa, si scoprono “indietro” e a volte  “ in ritardo” rispetto alle domande e alle attese della gente. Spesso diamo l’impressione di essere cristiani che vanno  incontro ai poveri di tanto in tanto con i vari interventi, più che compagni di viaggio che sanno stare accanto “togliendoci i calzari”.

Questo fa capire che è carente la formazione spirituale, culturale, umana e operativa di quanti hanno il “servizio della carità”.

 

 

 

  1. FEDE E VITA/4 – Per una fede incisiva e decisiva nella e per la costruzione delle città a partire dai più deboli e ultimi: politica e solidarietà.

 

Le nostre comunità fanno fatica ad incrociare le strade degli uomini e delle donne del nostro tempo, e appaiono tante volte ripiegate su se stesse e malate di una certa “chiusura intraecclesiale”. Ma questo non può farci dimenticare quanto esse siano legate al vissuto della gente. Basterebbe ricordare la presenza capillare delle parrocchie nel territorio e la vicinanza dei presbiteri e dei fedeli accanto alle persone che faticano, soffrono e sperano nel cammino di ogni giorno.

Le nostre parrocchie, pur con tutti i limiti e le stanchezze, rimangono “la fontana del villaggio” alla quale tutti possono attingere gratuitamente, senza misura e con facilità. Vanno  poi ricordati i tanti cristiani che nella vita di tutti i giorni e nei vari contesti di vita: famiglia, scuola, lavoro, relazioni occasionali, politica, volontariato, mondo sanitario, emarginazione e disagio giovanile e familiare..) vivono dentro le situazioni di frontiera e sanno dire “parole di Vangelo” e compiere “azioni di vangelo”. A questo si aggiungano i segnali che la diocesi sta dando con alcune iniziative ricorrenti che mettono in luce la preoccupazione di essere in uscita verso le famiglie, i giovani, i luoghi dove la gente vive e cioè la casa e la strada.

Per poter rafforzare questo orientamento, oggi urgente, occorre evitare il rischio, in cui cadiamo frequentemente, di demonizzare il mondo e di non vedere nella sua complessità, nel suo pluralismo e perfino nel suo relativismo, i segnali di un mondo che sta finendo e soprattutto i segnali di un mondo nuovo che ha bisogno soprattutto dei cristiani per realizzare un “nuovo inizio”. S. Paolo non parlava già allora che il mondo geme e soffre come nelle doglie del parto ? ( cfr. Rom. 8 ).  Ora questa gestazione è sempre in atto e vale anche per il nostro territorio e la nostra Chiesa.

Dunque, pur vedendone le contraddizioni, le derive e le ferite, siamo chiamati a guardare con uno sguardo amoroso  il mondo, la gente, il territorio per cogliere “ i semi del Verbo” in essi presenti, per riconoscere che laddove gli uomini vivono, lavorano, lottano e sperano, mostrano la loro debolezza e perfino confusione, lì è presente ed agisce lo Spirito di Dio. Facciamo molta fatica a credere questo.

Molti cristiani e non poche comunità, gli adulti e soprattutto i giovani,  faticano a  fare una lettura critica della realtà senza la quale non c’è crescita e novità. A volte si ha la sensazione che abbiamo rinunciato alla missione profetica che ci è stata affidata e che consiste nel saper “leggere la realtà”  vedendo in essa la presenza del Signore che guida sempre la storia, i passi ulteriori da compiere, i cambiamenti da realizzare, le denunce da fare: e tutto questo per favorire un umanesimo integrale, cioè il bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo. Siamo infatti convinti che il nostro territorio non è meno attraversato, a motivo della sua configurazione geografica e delle sue caratteristiche ambientali, dalla mentalità e dai comportamenti che sono presenti nell’intera società. Siamo poco “attrezzati” in ordine alla conoscenza della realtà con le sue fatiche nascoste e le sue ferite profonde, conoscenza  che nasce da un dialogo senza pregiudizi, da un discernimento intelligente, da una  capacità critica sapiente. Abbiamo bisogno pertanto superare una certa “povertà culturale” che ci rende poco capaci e abituati a  pensare, discernere e  progettare insieme il vivere degli uomini di questo tempo.

E’ scarsamente presente nella coscienza dei cristiani, preti e laici, che, secondo l’insegnamento costante della Chiesa,  “il primato della persona” è il criterio non negoziabile e sicuro per fare un vero discernimento sulla realtà e per valutare comportamenti, idee, visioni di vita e di società. Tante volte si ha la sensazione che in molto cristiani la fede in Gesù e l’accoglienza del vangelo non incidono sul modo di vedere la società  e di stare dentro di essa in maniera significativa.

In questo ambito, anche se qualcosa di sporadico è stato fatto (come i tavoli di lavoro dopo l’Assemblea sinodale e alcune conferenze cittadine), non abbiamo il coraggio di  promuovere un percorso di formazione politica per preparare i laici cristiani a stare dentro l’impegno socio-politico immettendovi i fermenti del Vangelo; d’altronde è chiaramente urgente la formazione delle nuove generazioni ad una rinnovata passione politica che cerchi il bene sociale. La fatica a coinvolgere i giovani sia nell’azione caritativa come in quella politica crea preoccupazione per la società che stiamo costruendo.

E’ dunque evidente che l’azione delle comunità cristiane non può ridursi, come non di rado avviene, alla distribuzione di cose, all’assistenzialismo e alla improvvisazione delle opere della carità. Occorre un’azione caritativa più intelligente  cioè una carità che sia politica e una politica che sia “forma alta di carità” soprattutto di fronte alle. “nuove forme di povertà” che sono più complesse, insidiose, invasive e devastanti.

Per questa ragione spesso le nostre comunità, pur con la loro azione apprezzabile e generosa, si scoprono “indietro” e a volte  “ in ritardo” rispetto alle domande e alle attese della gente mentre appare sempre più urgente, e tanti cristiani non se ne rendono conto, la necessità di elaborare un nuovo progetto di società che, ponendo più chiaramente al centro la persona, promuova un vero umanesimo integrale. Tanti nostri cristiani non pensano o non riescono a pensare questo.

Se così è, allora rischiamo di rimanere indifferenti, anzi quasi di collaborare, al rafforzamento  una società “economica” più che “umana”, una società “individualistica” più che “interessata al bene comune”; una società “relativista” più che “fondata sulla verità dell’uomo”. Di conseguenza una società con molti “ nervi scoperti “ riguardanti: il rispetto della vita umana (concepimento, aborto, disabilità, fine vita), la centralità della famiglia ( sostegno alle famiglie e alla natalità, nuove forme di convivenza e di coabitazione, separazioni, divorzi), la visione della sessualità e dell’affettività (soprattutto nelle nuove generazioni), la priorità del bene comune nella politica ( personalismi, populismi e corruzione), la dignità, la necessità e la stabilità del lavoro (condizione indispensabile per la dignità umana e per la vita familiare).

Questi fenomeni attraversano chiaramente la società civile e la comunità ecclesiale e chiamano tutti i fedeli ad essere cittadini esemplari e cristiani impegnati portando, come anni or sono diceva un vescovo italiano, la vesta battesimale nel mondo e la tutta di lavoro nella Chiesa: non siamo infatti dei separati dal mondo ma dentro il mondo. Occorre colmare il divario tra fede e vita, tra società e Chiesa.

Contributo diaconi permanenti della regione

DIACONI PERMANENTI REGIONE
SINTESI VI SCHEDA
Le ferite restano nascoste. E’ difficile che le comunità si interessino alle fragilità. Le comunità parrocchiali di fatto non sono comunità, cioè famiglia di famiglie dove ognuno si sente investito anche dei problemi degli altri. Ciò non significa che non ci sia attenzione per i poveri o per le situazioni di sofferenza o di difficoltà. Le caritas parrocchiali fanno un buon servizio di attenzione e di accoglienza, ma non coinvolge tutta la comunità e di fatto la carità è azione di soli pochi volontari su invito del parroco, a parte qualche partecipazione sporadica della comunità a portare pacchi viveri a lunga scadenza. Diversa è la situazione di gruppi e movimenti dove il senso comunitario è più forte e dove ci si sente coinvolti emotivamente, concretamente e nella preghiera. Ma il tutto rimane dentro il gruppo, dentro i propri simili. Di fatto la carità non si vede, non si vede la testimonianza dell’amore fraterno. C’è da dire inoltre che il tutto si limita alle fragilità o alle ferite “tradizionali”. Manca per esempio un agire sulle ferite che riguardano gli affetti, il vuoto di senso, la solitudine degli anziani, le devianze culturali e sociali. Su queste fragilità però ci sono eventi organizzati dai vari uffici diocesani (pastorale familiare, pastorale della salute, del lavoro…), eventi anche interessanti, ma spesso partecipati dai soli addetti o poco più. Buona è invece l’azione delle caritas diocesane, anche in sinergia con le strutture pubbliche, che anche attraverso corsi di aggiornamento spingono ad una apertura maggiore e a cercare persone con segni di ferite, anche se i veri poveri sono spesso restii a chiedere aiuto. Forse è necessario andarle a scovare queste povertà usando anche forme di pastorale già presenti nelle diocesi come la benedizione annuale alle famiglie. Di fatto abbiamo una Chiesa con le porte che si aprano solo per chi bussa e non ancora una Chiesa “ospedale da campo”, pronta a farsi prossima e le parrocchie sono luoghi sempre più vuoti, luoghi per celebrare una fede domenicale poco agganciata con la vita della gente, anche se non è esclusa una carità sommersa e nascosta operata singolarmente. C’è da dire però che non è facile intervenire perché è la gente stessa che oramai si è allontanata dalla chiesa, partecipando solo saltuariamente alla vita comunitaria. L’individualismo spiccato che si riscontra nella società, lo riscontriamo anche nella chiesa. Non neghiamo l’impegno dei sacerdoti che nei colloqui personali, nelle confessioni e nella direzione di anime sono elemento accogliente e guaritore.

SINTESI VII SCHEDA
La fede che si vive nelle nostre comunità è più celebrata che vissuta. La fede è matura ed incisiva solo se c’è attenzione operosa all’altro? Allora vuol dire che la nostra fede è ancora immatura, presente nelle celebrazioni e assente nella vita concreta dell’uomo. I percorsi di evangelizzazione non formano ancora i Cristiani convinti di avere una fede matura e incisiva nell’attenzione all’altro, chiunque esso sia. Sono molti i Cristiani concordi con le politiche di chiusura dei porti, di respingimenti, di chiusura verso le altri fedi. Forse i nostri percorsi sono troppo superficiali e si accontentano di portare ai sacramenti senza preoccuparsi di dare basi solide per formare Cristiani maturi e consapevoli di essere testimoni di Gesù Cristo. E di fatto liturgie e catechismi rimangono lontani dai bisogni del territorio, lontani da una conoscenza del tessuto sociale. Le nostre comunità forse conoscono bene gli iscritti per la Prima Comunione e per la Cresima, molto meno quale è la realtà sociale delle famiglie, le loro sofferenze, i loro bisogni. Ciò non significa che le parrocchie non siano coinvolte in azioni di attenzione verso gli ultimi e verso antiche e nuove povertà con azioni di caritas diocesane e caritas parrocchiali o con giornate di solidarietà soprattutto in avvento e in quaresima. Gli strumenti più importanti messi a disposizione sono i Centri di Ascolto, Empori di Solidarietà, il Centro di Ascolto per famiglie in difficoltà, Corsi specifici per le persone separate o divorziate. Rimane però come realtà di delega e non un educare e un coinvolgere tutta la comunità. La catechesi stessa (omelie e altro anche di sistematico) difficilmente approfondisce tematiche presenti nella dottrina sociale della chiesa. Specificamente poi per un dibattito aperto o per un impegno sociale e politico dei cattolici evidenziamo la stessa povertà pastorale, quasi a temere un confronto dopo la diaspora di militanza politica del mondo cattolico, prima concentrato su un unico partito che poteva garantire scelte vicine ai valori tradizionali del cattolicesimo. Spaesati e dispersi in un mondo in cui l’individualismo e il soggettivismo è imperante, con la Chiesa che su questi temi si è chiusa in sacrestia. E’ auspicabile quindi che l’impegno dei Cristiani in politica possa essere molto più rilevante sia con le idee che con il numero per poter incidere nell’azione politica locale e regionale.

Contributo del Seminario regionale umbro

seminaristi del Seminario Regionale Umbro di Assisi
mediante le schede dell’Instrumentum laboris
in vista dell’Assemblea 2019

Scheda 1 – VIVERE LA CHIESA

1. Quali segnali mettono in evidenza il senso di appartenenza alla parrocchia, all’unità pastorale, alla diocesi, alla Chiesa universale?

Da una parte si nota una partecipazione più o meno costante, la quale delinea un senso di appartenenza significativo alla Chiesa. Tuttavia la partecipazione collettiva non sempre fa trasparire una azione comune all’interno della Chiesa. L’individualismo spirituale e sacramentale a volte causa una dicotomia tra vita parrocchiale e vita sacramentale, le cui differenti peculiarità e caratteristiche non sempre si sviluppano in maniera armonica e coerente. Una tendenza simile la si può notare anche in seno alle attività di tipo pastorale, in cui le differenti realtà parrocchiali faticano a cooperare e a condividere i propri carismi. Tale tendenza la si nota particolarmente tra quei movimenti già strutturati attraverso un cammino spirituale che li caratterizza in modo peculiare.
C’è infatti poca attenzione all’unità pastorale, ogni parrocchia va da sé. Le parrocchie lontane non sentono il legame con la città e con la diocesi in generale.
Si riscontra poca partecipazione agli eventi diocesani anche a causa di una mancata collaborazione inter-parrocchiale. Manca il “fare le cose insieme”, anche in ambito di pastorale giovanile, forse per un eccessivo legame al territorio e per una poca elasticità.Sentiamo la necessità di far emergere la Chiesa particolare come parte di un tutto.

2. Quanto la domenica esprime e genera gioia di fare comunità attorno al risorto e manifesta il senso della festa?
La gioia di fare comunità emerge particolarmente in quelle festività che, a livello liturgico, hanno una rilevanza maggiore (Natale, Pasqua e Battesimi). È ancora forte, purtroppo, l’individualismo spirituale e la non comprensione (se non addirittura l’ignoranza) del fatto che la celebrazione eucaristica, ma, più in generale, qualsiasi evento liturgico ha valore perché “è un evento comunitario” a cui tutta la comunità è chiamata a partecipare.

3. Come valutiamo la qualità delle celebrazioni domenicali? Circola in esse la gioia della festa e il senso di appartenenza ecclesiale?
La qualità delle celebrazioni è bassa, a volte pessima. Gli estremi sono la sciatteria e la spettacolarizzazione delle celebrazioni che molto spesso mettono in risalto il celebrante a scapito della partecipazione attiva dei fedeli. In troppe Eucaristie non circola né gioia, né senso di festa e di appartenenza. Grande è la responsabilità è dei sacerdoti. È bene ritornare allo slogan: “meno messe, più Messa.”

4. Come il clero della nostra diocesi vive e annuncia la gioia del Vangelo? In che misura la Evangelii Gaudium è stata recepita dai presbiteri e dai diaconi?
Nella nostra attività pastorale abbiamo riscontrato la mancata ricezione dell’Evangelii Gaudium, al punto che alcuni di noi hanno espresso il dubbio che in certi contesti sia stata effettivamente letta. Ciò vale anche per il clero. Forse la motivazione della difficoltà della ricezione dell’esortazione va ricercata nel fatto che la “gioia del vangelo” auspicata da Papa Francesco a volte si scontra con il rifiuto di mettere in discussione alcuni modelli che in qualche modo “tirano avanti” la parrocchia.

Scheda 2 – GLI ADULTI E LA FEDE

1. Quanto il primo annuncio della fede e la formazione cristiana permanente sono fondati sulla Parola di Dio ascoltata, meditata, celebrata, vissuta e testimoniata?
Viviamo in un contesto storico in cui, a prescindere dalle differenze locali, i vecchi strumenti usati in ambito pastorale non sono più adeguati; siamo entrati in una fase di sperimentazione, spesso “selvaggia” e si è comunque alla ricerca di modelli più efficaci, fondati specificamente sulla Parola, attraverso nuove metodologie di insegnamento ed annuncio. Va anche detto che il “Primo Annuncio”, o, meglio, la conoscenza base del Kerygma a persone battezzate, ma comunque lontane, risulta molto deficitario.

2. Quali sono le proposte e gli strumenti messi in atto dalla diocesi, dalla parrocchia e dalle associazioni per offrire agli adulti un accompagnamento costante, organico e strutturato nel percorso verso una fede sempre più pensata e adulta?
Dal confronto sono emersi questi strumenti: i cicli di catechesi, piccoli gruppi di condivisione, le cellule di evangelizzazione, la costituzione di famiglie spirituali, la “lectio divina” e naturalmente tutto ciò che le associazioni, i movimenti e le aggregazioni ecclesiali propongono.

3. Gli adulti comprendono i vari linguaggi utilizzati nella comunicazione della fede? Quali sono gli ostacoli da rimuovere affinché tale comunicazione risulti più efficace?
Il linguaggio che noi utilizziamo è spesso autoreferenziale e di tipo “didattico”, di non sempre facile ed immediata comprensione. Mancano quasi sempre riferimenti all’esperienza e alla vita concreta vista come unica possibilità per vivere una fede autenticamente cristiana e quindi incarnata. Non si fa riferimento all’amore di Cristo come a una realtà viva e presente nella vita dei credenti.

4. Il ruolo dei pastori è determinante in ordine alla trasmissione e alla maturità della fede dei fedeli: quali gioiose prospettive e quali maggiori difficoltà trova oggi il ministero ordinato nella nostra regione?
Il radicale cambiamento d’epoca in cui oggi vivono i sacerdoti e l’incapacità di leggere “i segni dei tempi” li trova completamente impreparati ad esercitare la profezia che dovrebbe naturalmente scaturire dalla fede e dal ministero. La situazione odierna dovrebbe essere invece fonte di un rinnovato entusiasmo, che dovrebbe spingere ad un ripensamento del proprio ruolo nella Chiesa e nella società. Spesso ci si limita a rimpiangere un passato mai esistito e si finisce con il vivere pervasi da un senso di frustrazione, nella solitudine, e nella diffidenza verso proposte nuove e profetiche. Questa ottusità e queste chiusure, rischiano inoltre, di generare difficoltà di tipo relazionale all’interno dello stesso presbiterio dove si arriva perfino a situazioni paradossali in cui alcuni preti anziani “illuminati” sono molto più “aperti” rispetto ai giovani.

Scheda 3 – I GIOVANI E LA FEDE

1. Quali sono gli ostacoli che rendono difficoltosa la trasmissione della nuova notizia alle nuove generazioni, e la sua accoglienza?
Una prima difficoltà risiede nel fatto che i giovani vivono un modello di relazione basato sulla comunicazione multimediale attraverso i social network. Tale elemento acuisce la solitudine e l’auto-referenzialità, per cui un modello di vita comunitario risulta di più difficile accettazione.
Una seconda difficoltà relativa alla trasmissione della fede viene principalmente dalle famiglie che ad oggi consegnano poco o niente i valori cristiani ai propri figli.

2. I giovani sono chiamati ad evangelizzare gli altri giovani. Avviene questo nel nostro territorio? Quanto viene apprezzato e valorizzato dalle comunità?
In parte avviene e non sempre viene apprezzato e valorizzato dalle comunità. Spesso i giovani non vengono sufficientemente formati e accompagnati nell’evangelizzazione.

3. Riteniamo che l’attuale impegno nella pastorale giovanile risponda alle attese e ai sogni dei giovani? Quanto li aiuta a scoprire e ad accogliere la vocazione di ognuno?
Tendenzialmente l’impegno nella pastorale giovanile non risponde alle attese e ai sogni dei giovani. Soprattutto perché il linguaggio utilizzato non differisce molto da quello proposto dall’ambiente in cui i giovano vivono. È come se a volte ci sia troppa paura a proporre quella che è l’autentica ricchezza della Chiesa. Da tutto ciò deriva la difficoltà a connettere pastorale giovanile e vocazionale.

4. Che percezione sussiste oggi in Umbria della vocazione al ministero ordinato e alla vita consacrata?
C’è un’evidente difficoltà, nella cultura odierna a coltivare dei sogni o degli ideali di vita. Qualsiasi vocazione non riesce a radicarsi, specialmente quando comporta una rinuncia di sé più radicale. In questo senso, la vocazione al ministero ordinato e alla vita consacrata, trova una difficoltà enorme, anche solo ad essere presa in considerazione.
Mancano valide testimonianze di pastori e consacrati capaci di esprimere la gioia che dovrebbe scaturire da una vita di donazione a Dio e ai fratelli. Mo

Scheda 4 – FEDE E VITA\1

1. Le nostre comunità sono capaci di un annuncio evangelico che tocca la vita delle persone nella dimensione degli affetti?
Lenostre comunità oggi presentano notevoli difficoltà in un annuncio evangelico che coinvolga la dimensione affettiva. Questo dipende spesso da un certo pregiudizio relativo all’approccio della Chiesa nei confronti dei temi della sessualità. Anche il dialogo con i singoli risulta complesso a causa della delicatezza e della confusione relativa all’argomento.

3. Quali sono le iniziative che la Chiesa mette in atto nel nostro territorio per “evangelizzare gli affetti” nelle differenti stagioni e stati delle persone?
Sono generalmente presenti corsi indirizzati, per adolescenti e giovani, sull’affettività, corsi per fidanzati, corsi pre-matrimoniali (corsi frati minori della Porziuncola) e percorsi per coppie sposate. Si riscontra una difficoltà per quanto riguarda l’accompagnamento delle persone omosessuali.

4. Come le nostre comunità stanno recependo il rinnovamento della pastorale familiare alla luce dell’Amoris Laetitia?
Si riscontrano due tendenze: da una parte il lavoro di accompagnamento famigliare è sempre più delegato a coppie sposate o a sacerdoti preparati (es. “Casa della Tenerezza”); dall’altra, molte nostre realtà non sono ancora protagoniste di un rinnovamento di questo tipo.

Scheda 5 – VITA E FEDE/2

1. Come vengono percepiti il significato e il valore del lavoro e del riposo? Come sono vissuti non solo da parte dei credenti ma anche dalle altre persone che abitano il nostro territorio?
Oggi il lavoro e il riposo hanno acquisito un significato assai diverso che in passato: il lavoro è assolutizzato, mentre il riposo viene visto, nei pochi spazi in cui se ne può usufruire, come un tempo privato da spendere per scaricare le tensioni e ricaricare le energie. Poiché domina il consumismo, ormai le domeniche si spendono per andare ai centri commerciali e alle varie fiere. Anche i cristiani sono influenzati da questa mentalità e non si distinguono più dagli altri.

2. Come si pone la comunità cristiana di fronte ai problemi dell’occupazione e della disoccupazione, del lavoro precario, del lavoro “nero” e della mancanza di lavoro per i giovani? In particolare, come si coinvolgono i credenti laici nelle situazioni concrete in cui essi stessi si trovano a vivere ed operare?
La comunità cristiana percepisce i drammi e i problemi che sono presenti nella nostra società ma non esprime una coscienza comune e vede le difficoltà nel mondo del lavoro da un punto di vista strettamente personale. D’altra parte molti cristiani credono che il clero e la gerarchia ecclesiastica possano favorire l’ingresso nel mondo del lavoro e per questo cercano di accedere a questo canale privilegiato solo per ottenere favori o raccomandazioni. Inoltre la comunità cristiana non percepisce, anche a causa delle tasse troppo alte, la gravità della piaga del lavoro “nero” e dell’evasione fiscale. È fondamentale per poter affrontare tale tematica in ambito parrocchiale che i presbiteri per primi seguano un’etica cristiana nell’esecuzione delle svariate attività economiche e commerciali (rispettare i doveri legali, fare uso sapiente del commercio online, opporsi alla mentalità consumistica del “tutto subito”).

3. Come sono vissuti il riposo e il tempo libero? Quali opportunità concrete offre la comunità per superare la visione consumistica ed evasiva del riposo?
Il tempo libero è vissuto in modo individualistico, per ricaricarsi dalle fatiche del lavoro. Ormai nei giorni di riposo i centri commerciali sono regolarmente affollati, e gli eventi sportivi attirano l’attenzione di un numero sempre crescente di persone. I cristiani si sono conformati a questo stile di vita, per cui è difficile coinvolgerli nelle attività parrocchiali. Dobbiamo riconoscere il tentativo da parte degli operatori pastorali di offrire una formazione ed una sensibilizzazione che contrasta la visione consumistica. Alcune comunità infatti organizzano eventi capaci di accogliere i fedeli a livello famigliare, offrendo momenti di spiritualità, gioia e di relax, in una cornice autenticamente cristiana.

Scheda 6 – FEDE E VITA\3

1. A. Quale atteggiamento prevalente circola nelle nostre comunità nei confronti delle persone che mostrano i segni delle ferite, a volte evidenti ma spesso nascoste?
B. Chi sono oggi nel nostro territorio quelli che “rimangono indietro, i deboli o i meno dotati”?
Tendenzialmente i momenti di attenzione si mostrano sporadici, talvolta di fronte alle ferite dell’altro si fugge, ci si nasconde forse perché spaventati e in difficoltà.
Anche se dipende dalle differenti realtà, gli ultimi del nostro tempo sembrano essere soprattutto gli anziani, gli emigrati, i separati, i precari, e chi soffre di gravi problemi di dipendenza, oltre che i giovani che spesso si isolano con gravissime difficoltà di relazione.

2. Quanti sono feriti dalla vita e sperimentano fragilità e debolezze sul piano fisico e psicologico, affettivo, morale e relazionale si sentono incoraggiati a bussare alla porta della comunità, delle famiglie e del cuore dei credenti?
Sì, e lo dimostra il grande impegno delle Caritas parrocchiali e diocesane. Gli operatori infatti riescono a svolgere il loro servizio in maniera evangelica. Questo fa sì che coloro che sperimentano fragilità e debolezzenon temano di venire giudicati e respinti.

3. Esistono in modo stabile nelle comunità o nella zona pastorale luoghi, tempi, servizi di accoglienza e di ascolto, di consolazione e di “compassione”, di “simpatia” e di misericordia per le persone in difficoltà? Se sì, quale valutazione ne diamo? Quali esperienze di sinergia esistono tra le comunità cristiane e le strutture pubbliche?
In alcune realtà, soprattutto in quelle più grandi e numerose, sono presenti servizi di accoglienza e di ascolto per le persone in difficoltà. Essi risultano particolarmente utili soprattutto perché si trovano talvolta a sopperire alle mancanze di servizi che dovrebbero essere erogati dalle strutture pubbliche. Qualche volta si riscontra una difficoltà nella collaborazione tra questi tipi di strutture.

Scheda 7 – FEDE E BENE COMUNE

1. I percorsi di evangelizzazione proposti dalle comunità generano nei cristiani la convinzione che la fede è matura e incisiva solo se si traduce nell’attenzione operosa dell’altro, chiunque esso sia?
Sì, se ne parla abbondantemente, e il valore della carità viene ribadito in molteplici contesti. A fronte dell’impegno che una fede matura comporta, è difficile riscontrare una risposta continuativa, ma una parte del popolo di Dio è capace di assumersi responsabilità in modo costante.

2. Quali sono gli strumenti messi in atto dalle parrocchie per rispondere ai bisogni del territorio? Tali strumenti educano alla carità tutti i cristiani oppure si traducono semplicemente in una delega?
Le Caritas, i centri d’ascolto, i campus estivi, il GrEst, gli Scout, l’operazione Mato Grosso, le scuole di formazione politica, il catechismo e simili sono strumenti preziosi; purtroppo queste iniziative non sempre riescono a sviluppare una prospettiva di tipo sociale e politica a lungo termine e di larghe vedute.

3. Quanto l’esercizio della carità si traduce in preoccupazione e impegno per lo sviluppo umano integrale dei più poveri, cioè in un impegno sociale e politico? Come cattolici incidiamo nell’azione politica e sociale della nostra Regione?
La nostra azione sembra essere scadente. Percepiamo l’idea di una separazione tra fede e partecipazione attiva alla vita politica, quasi che la dottrina sociale della Chiesa sia in contrasto con quanto ci si aspetterebbe da una buona politica. Una soluzione può essere l’istituzione di scuole di formazione politica valide.

Contributo della Delegazione regionale della Caritas

Regione ecclesiastica dell’Umbria
Delegazione regionale Caritas

Contributo al Convegno ecclesiale regionale

1. Quali sono i deboli nei nostri territori

La storia della povertà coincide evidentemente con quella dell’umanità dei nostri territori e della nostra Regione. Uomini dalle condizioni disagiate rispetto ad altri in una situazione sociale per vari motivi più favorevole, sono stati presenti in tutte le società organizzate ed è per questo che il concetto di povertà è un concetto relativo. E certamente, la povertà nei territori della Regione, oggi più di ieri, assume carattere multiforme, dinamico, evolutivo.
Tale affermazione è desunta sia dal contenuto delle principali indagini sulla povertà realizzate dalla statistica pubblica: Reddito e condizioni di vita e Spese per i consumi delle famiglie, entrambe dell’ISTAT, ma soprattutto dai dati rilevati in decine e decine di “Centri di ascolto”, sparsi in tutti i territori, sostenuti dalle Caritas diocesane e parrocchiali. In molte Diocesi tali dati sono comunicati in diversi Rapporti annuali dai responsabili delle Caritas e dai vescovi ordinari.
Da ciò emerge un primo dato generale di rilievo, quello del numero medio di incontri annui per ogni persona presso i centri di ascolto. In dieci anni si è passati da 1,2 incontri per persona a 6,6 all’anno. Ciò significa che certi tipi di povertà richiedono sia interventi continuativi, sia un prendersi cura in senso globale della persona, necessità di “relazioni di prossimità” e non solo singoli gesti di solidarietà o di “elemosina”.
Un secondo dato, è quello che nella Regione, gli interventi effettuati per i cittadini stranieri non supera ormai da tempo quello degli italiani. Non solo, dal punto di vista economico, gli interventi per gli italiani hanno un “valore” assolutamente superiore. Ciò per dire che la percezione generale di sbilanciamento di “solidarietà” verso gli stranieri, del resto per quello che può valere, non è assolutamente veritiera.
Complessivamente i bisogni rilevati in Regione:
• Povertà economica (La povertà economica, in massima parte, è dovuta o a reddito insufficiente o ad assenza di reddito)
• Problemi di occupazione
• Problemi abitativi
• Problemi familiari
• Problemi di salute fisica e mentale
• Problemi di povertà educativa
• Problemi legati alla condizione di immigrato
• Handicap
• Solitudine
• Dipendenze (alcol, droga, gioco)
• Il degrado ambientale non sembra invece entrato nella percezione dei fedeli come una delle cause di povertà e di rischio per la salute.

Inoltre, sembra assolutamente efficace l’affermazione di Papa Francesco (da l’Osservatore Romano): “Che cos’è la povertà? Di questo solitamente si tace, si sottolineano molto i soldi che mancano per creare lavoro, per investire in conoscenza, in formazione, per progettare un nuovo welfare e per salvaguardare l’ambiente. È giusto, ma il vero problema non sono i soldi che da soli non creano sviluppo. La loro mancanza è diventata una scusa per non sentire il grido dei poveri e la sofferenza di chi ha perso la dignità di portare a casa il pane perché ha perso il lavoro. Il rischio è che l’indifferenza ci renda ciechi, sordi e muti, presenti solo a noi stessi con lo specchio davanti. Uomini e donne chiusi in se stessi. C’era qualcuno così che si chiamava Narciso. Quella strada no. Noi siamo chiamati ad andare oltre, il che vuol dire allargare, non restringere, creare nuovi spazi e non limitarsi al loro controllo. Andare oltre significa liberare il bene e goderne i frutti”.
2. Esistono nella comunità o nelle zone luoghi, tempi, servizi di accoglienza e di ascolto, di consolazione e di compassione, di misericordia?
La Bibbia non fa distinzione tra i poveri, ma invita ad occuparci di tutti, qualsiasi sia la loro condizione e provenienza. Nelle Sacre Scritture, troviamo le ragioni dell’accoglienza, dai patriarchi alla parabola di Gesù sul giudizio finale: Non si tratta solo di difendere il diritto dello straniero, ma di assumere lo stesso atteggiamento di Dio nei suoi confronti, quello dell’amore”.
Alla luce di Sacre Scritture, etica e realtà, permane per i credenti il richiamo all’accoglienza, che “per noi cristiani non è un optional”, al di là di ogni tipo di legislazione e certo non per opporsi a leggi che comunque devono governare fenomeni come quello delle migrazioni, con cui ci dobbiamo misurare.
In ogni chiesa diocesana vi sono “opere di misericordia” e luoghi specifici per l’ascolto, la solidarietà e l’accoglienza. Ma tutto ciò, se da un lato appare un traguardo – per come era organizzata la vita ecclesiale solo un decennio fa – dall’altro, è altrettanto evidente come la “carità della Chiesa” non è collegata, se non sporadicamente, con la vita liturgica e soprattutto catechetica delle parrocchie o delle zone pastorali.
Così i “luoghi” dell’accoglienza oggi potrebbero costituire una sfida formativa per la Chiesa.
Una sfida formativa per l’integrazione di catechesi e carità liturgia. È ormai evidente a chiunque sia dotato di un minimo di sensibilità che sulla capacità di accoglienza si gioca la nostra condizione di esseri umani o, al contrario, il nostro scivolare sempre più in quella barbarie che si vedono affiorare qua e là, sempre più insistentemente. Non a caso, l’accoglienza è stato il “grande” segno del Giubileo della Misericordia, un segno che può testimoniare la concretezza del Vangelo e l’autenticità della nostra conversione. Accoglienza è pratica di solidarietà, è esercizio di giustizia, è affermazione del diritto alla esistenza. Come può tutto questo non essere organicamente presente nelle celebrazioni e nei percorsi educativi?
La delegazione Regionale riscontra che c’è bisogno di un’educazione all’accoglienza da far emergere in tutti i luoghi della vita quotidiana; c’è bisogno di un’informazione onesta e non ideologizzata; c’è bisogno di far crescere un dialogo adulto e fraterno tra culture e etnie diverse.

3. Quale atteggiamento prevalente circola nella nostre comunità nei confronti delle persone che mostrano i segni delle ferite?

Per capire facilmente l’atteggiamento prevalente di oggi nei confronti delle povertà e dei poveri, anche nelle nostra chiese, si potrebbe ricorrere ad una metafora tratta dalla storia della Chiesa stessa. Il povero era stato fino a gran parte del Medioevo un simbolo di valori cristiani: in ogni povero c’era la sofferenza di Cristo e la stessa elemosina più che un carattere di solidarietà sociale assumeva un valore religioso. Ma successivamente, la figura del povero prima assimilata a quella dell’eremita, del viandante pellegrino, è venuta via via confusa con quella di un “esercito minaccioso di miserabili”. Le istituzioni cittadine cominciarono allora a distinguere tra la povertà “vera” da quella “falsa”, comprendendo nella prima i malati, coloro che non potevano più mantenersi per motivi fisici, i ragazzi e i bambini abbandonati dalle famiglie, i vecchi che non potevano più lavorare ma che avevano lavorato in passato. Vi erano poi i poveri organizzati in “compagnie” come quelle dei ciechi e degli storpi riconosciute dall’assistenza pubblica. Ma gli altri indigenti, soprattutto la moltitudine dei poveri occasionali che chiedevano l’elemosina, esclusi da corporazioni e confraternite, cominciarono ad essere denigrati e colpiti da leggi repressive senza più alcun significato pastorale.
Nella nostra contemporaneità sembra ripetersi lo stesso schema: non è la situazione di bisogno, qualunque esso sia, a riconoscervi il bisogno “del nostro Signore”, ma è il giudizio dell’ideologia che domina i media ad indicare chi è povero e chi no, chi merita del nostro aiuto e chi no; non è più la pastorale a guidare l’opinione dei fedeli sulle forme di carità, bensì istituzioni e agenzie esterne alla Chiesa.
In questo senso, si crede, che occorra leggere anche la “crisi del volontariato” anche nella Chiesa. La dimensione della gratuità, che scaturisce direttamente dalla conversione dei cuori, non sembra più essere interessante per i cristiani di oggi.

Non a caso che Francesco sempre ricorda che il cristiano è una persona che accoglie, accogliere significa fidarsi, abbattere i propri muri per riuscire ad intravvedere la pienezza dell’amore, accogliere è fare lo sforzo di aprire le porte di casa, le porte del cuore, aprire i propri confini a chi viene a bussare: “Com’è bello immaginare le nostre parrocchie, comunità, cappelle, dove ci sono i cristiani, non con le porte chiuse, ma come veri centri di incontro tra noi e Dio. Come luoghi di ospitalità e di accoglienza“.

Todi, 07.05.2019
Il Delegato Regionale
Marcello Rinaldi

Contributo preparatorio della Commissione per la vita Consacrata

Conferenza Episcopale Umbra
Commissione per la Vita Consacrata
A CURA DEL CISM REGIONALE

Contributo in vista dell’Assemblea Ecclesiale
Delle Diocesi Umbre
Foligno, 18-19 ottobre 2019

Introduzione
I Religiosi e le Religiose dell’Umbria, come corpo organico all’interno della comunità Ecclesiale, sentono forte il richiamo e l’invito a partecipare alla vita delle diocesi. Per questo avvertiamo come essenziale la preparazione all’incontro che si terrà il prossimo ottobre tra tutte le Diocesi umbre, delle quali siamo parte integrante, e che avrà come titolo l’avvincente espressione della Prima Lettera di Giovanni: «Perché la nostra gioia sia piena (1Gv 1,4). L’annuncio di Gesù Cristo nella terra umbra».
In questa ottica abbiamo pure deciso di dedicare il prossimo incontro dei Religiosi e Religiose, che si terrà nel mese di maggio 2019, ad un tema che vuole essere in continuità con quello dell’Assemblea: «Collaboratori della gioia» (2Cor 1,24).
La gioia del Vangelo è il senso della nostra vita e della nostra consacrazione e avvertiamo la responsabilità di comunicare questa gioia, non da “padroni della verità” ma da servi della gioia altrui. Assieme a tutte le chiese umbre vogliamo «riscoprire la gioia di vivere il Vangelo e di annunciarlo ai nostri contemporanei» (Indicazioni per il cammino di preparazione nelle diocesi e in regione, p. 4). È la stessa commissione preparatoria a chiarire che l’impegno di partecipazione dovrà «interessare e appassionare le diocesi, le parrocchie, i religiosi, le associazioni e i movimenti;…».
Il coinvolgimento lo avvertiamo ancora più pressante in riferimento all’icona evangelica scelta per l’Assemblea: la parabola del tesoro nascosto nel campo (Mt 13,44). In essa, oltre ad un comune sentire delle chiese in vista dell’incontro, suscita in noi molta attenzione ed interesse perché ci sembra che descriva in modo essenziale la sostanza della vocazione religiosa stessa. Abbiamo abbracciato tale forma di vita proprio perché un giorno abbiamo scoperto questo tesoro ed abbiamo deciso di lasciare tutto per poter acquistare il campo nel quale è nascosto.
In definitiva dunque sentiamo di dover guardare con particolare interesse al cammino di preparazione all’Assemblea di ottobre, perché avvertiamo di dover riscoprire quel tesoro e di approfondire, assieme ai Vescovi, ai presbiteri, ai laici e a tutti i Religiosi, l’arte del comunicarlo.
Le nostre comunità si impegnano ad assicurare la preghiera per la riuscita di questo evento, coinvolgendo particolarmente i contemplativi e le contemplative delle nostre diocesi, consapevoli del fatto che «se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori» (Sal 127,1).
All’interno del Significato Ecclesiale che assume l’incontro di ottobre ci teniamo a sottolineare la nostra apprensione nel prendere consapevolezza che è in gioco «la fede delle nostre Chiese e quindi la qualità della vita nella Regione».
La Chiesa è una sinfonia di voci, di carismi diversi e, particolarmente in questa nostra terra, i Religiosi e le Religiose ricoprono un ruolo di primo piano nella testimonianza e nella cura anche pastorale delle diverse comunità. Non possiamo tirarci in dietro dinanzi alla responsabilità dell’annuncio ed alla condivisione della gioia.
Nostro particolare compito sarà comprendere come rafforzare la gioia nei credenti umbri, facendo la nostra parte in comunione con tutte le espressioni della vita ecclesiale.

Dando uno sguardo alle schede di lavoro per la preparazione diocesana all’Assemblea, abbiamo pensato di rispondere principalmente alle domande che, nei vari argomenti trattati, ci sembravano particolarmente rivolte a noi anzitutto come uomini e come Religiosi e poi come operatori pastorali.
Di ogni scheda dunque abbiamo preso in esame gli aspetti più inerenti alla nostra forma di vita.

1. VIVERE LA CHIESA. Per una fede celebrata e condivisa: tessuto delle comunità, senso di appartenenza, qualità delle celebrazioni.
L’Eucaristia è il fondamento della vita Religiosa e della vita di tutte le comunità cristiane. L’Eucaristia edifica la Chiesa e fa sì che ogni credente possa assimilarsi sempre più al Figlio del Padre per poter essere in Lui figlio. Avvertiamo come sia una grande sfida quella di far percepire ai fedeli la consapevolezza della propria appartenenza ad un corpo più grande, quello ecclesiale, e che celebrando l’Eucaristia, soprattutto quella domenicale, si è in comunione con tutta la Chiesa di Gesù.
In particolare noi, Religiosi, ai quali sono affidati molti dei santuari umbri, una ricchezza inestimabile, dobbiamo avere le necessarie attenzioni affinché tutte le nostre comunità si sentano parte attiva e integrante delle Diocesi nelle quali sono inserite, ed educhino tutti i fedeli a questo sentire cum ecclesia, senza il quale la formazione manca di un aspetto fondamentale e sostanziale.
Dall’altra parte auspichiamo che i vescovi, i pastori ed i laici delle diverse Chiese ci considerino anch’essi parte di quel corpo che costituisce la comunità cristiana.
Nel nostro impegno ad annunciare la gioia del Vangelo riscontriamo una grande difficoltà nel far sentire la necessità di celebrare la domenica come giorno del Risorto. Spesso, in generale, anche tra i pastori e i Religiosi, si riscontra una sorta di stanchezza che si ripercuote nella vita liturgica e spirituale delle nostre assemblee.
Abbiamo bisogno di ritrovare in noi la gioia perché possa, con la grazia del Signore, circolare tra tutti i credenti.

2. GLI ADULTI E LA FEDE. Per una fede pensata e adulta: priorità degli adulti, problema dei linguaggi.
Ritornando alle intuizioni del Concilio la Parola e l’Eucaristia debbono essere riconosciute chiaramente come il fondamento della vita della Chiesa.
Anzitutto avvertiamo di doverci convertire sempre e incessantemente ad una vita spirituale nutrita dalla Parola di Dio. Ritornare alla Scrittura è l’impegno che sentiamo di dover riprendere e lo stile con il quale fare il nostro annuncio.
Riteniamo che tutti i membri della Chiesa locale debbano operare questo tipo di conversione utilizzando tutti quegli strumenti che già vengono offerti dalle Diocesi e stimolando a produrne di nuovi che sappiano radicarsi efficacemente nell’ascolto della Parola di Dio e nella celebrazione della liturgia. In generale però rileviamo che in molti casi la molteplicità delle iniziative o dei sussidi offerti possa essere in qualche modo eccessiva, rischiando di far smarrire il confronto semplice e diretto con la Sacra Scrittura, fonte privilegiata del cammino di fede di ciascuno.
L’ascolto della Parola va accompagnato da una sana capacità di tradurlo nella lingua del popolo di Dio. In questo sentiamo che i Pastori debbano essere sempre più esperti in umanità, capaci di condividere la vita e le sfide della gente, affinché non venga svilito e avvertito come superfluo o incomprensibile, l’annuncio della gioia del Vangelo.

3. I GIOVANI E LA FEDE. Per una fede interessante trasmessa alle nuove generazioni: coraggio innovativo.
Affrontando il tema dei “Giovani e la fede” non possiamo non partire dalla costatazione che, pur avendo le nostre Comunità un età media alta, ci sono ancora giovani che si accostano e chiedono di entrare nel cammino di formazione verso la professione religiosa. Questo aspetto porta a considerare che tutta la ricchezza, ma anche la fragilità della condizione giovanile ci tocca da vicino.
Non possiamo non costatare che la terra di Francesco e di Chiara, di Benedetto e di Rita, eserciti ancora il suo fascino sulle nuove generazioni ma non possiamo perdere la consapevolezza che il “moto” iniziale della vocazione abbia poi bisogno di concretezza e di radicamento nella vita vera.
Ci accorgiamo della difficoltà che, nella nostra società, il Vangelo incontra per radicarsi nella vita e nel cuore delle persone, ed in particolare dei giovani. Un mondo che viaggia a velocità sempre più elevate sembra essere in dissonanza con la necessità della cura attenta e distesa della dimensione spirituale e autenticamente umana. Allo stesso tempo però si riscontra nei giovani e nella loro disposizione ad essere sempre “connessi”, l’attitudine ad abitare quegli spazi nei quali una sorta di annuncio può essere vissuta.
Soprattutto pensando ai giovani dobbiamo avere uno sguardo positivo e costruttivo, capace di cogliere tutte le enormi potenzialità e lo spirito di profezia che la condizione di giovane può portare con sé.

4. FEDE E VITA 1. Per una fede capace di plasmare la vita: gli affetti.
La dimensione affettiva è una componente essenziale della vita di ogni uomo. L’annuncio del Vangelo non può non toccare anche tale aspetto, anzi deve essere capace di parlare al “cuore” di ciascuno.
La conversione che deve realizzarsi in noi e che deve essere annunciata e proclamata non può esimersi di arrivare fino alle profondità del cuore umano.
Ci siamo resi conto che troppo spesso la nostra predicazione è concentrata principalmente sulla dimensione intellettiva e conoscitiva, una sorta di comunicazione di informazioni, talvolta molto interessanti, sulla fede cristiana.
Riteniamo che, l’annuncio all’uomo integrale, debba prendere le mosse dal cammino personale di ogni annunciatore che abbia toccato le corde più profonde della vita spirituale, intellettuale ed affettiva della persona umana.
In questo senso abbiamo bisogno, anzitutto noi, di riscoprire la necessità di “evangelizzare l’amore”, questa parola abusata da tutti e per questo svilita nel suo significato più vero. Abbiamo bisogno di ritornare al Vangelo e a Gesù perché ritroviamo in lui il senso dell’amore, che sta alla base di tutte le nostre relazioni e che deve essere il fine ultimo di ogni progetto di vita.
Abbiamo riconosciuto quanto bene possa fare l’approfondimento serio dell’Amoris Laetitia, in alcuni ambienti ancora troppo ignorata o considerata a partire da pregiudizi molto radicati.

5. FEDE E VITA 2. Per una fede concreta e incisiva: il lavoro, il tempo libero.
Ci sentiamo molto interrogati dal tema di questa scheda. In particolare il tema del lavoro assume per noi Religiosi e Religiose un significato tutto particolare. Ci aiuta infatti a ricordare che, in quanto consacrati, siamo sì uomini e donne di Dio, ma siamo pure uomini e donne che lavorano, che affondano le radici della propria vita in quella dell’operaio di Nazaret. Chiamati a imitare il Maestro non possiamo rinunciare a questa dimensione essenziale della vocazione religiosa.
Riconosciamo dunque che il nostro ruolo di consacrati possa apportare un contributo notevole a questo tema, aiutando anche i laici a considerare il lavoro non come esperienza frustrante ma come sequela, contemplazione, e come collaborazione all’opera creativa di Dio.
Ovviamente siamo ben consapevoli che il lavoro sia un aspetto determinante della vita umana. Riscontriamo che, per troppi, la ricerca del lavoro sia un percorso estenuante che può lasciare spazio alla disperazione ed allo sconforto. In questo noi con la Chiesa tutta dobbiamo fare di più per sensibilizzare a questo tema e per offrire un contributo efficace nella ricerca di soluzioni concrete.
Spesso il contributo che noi Religiosi e Religiose offriamo si esprime nell’ascolto e, non di rado, nella risoluzione di singoli casi, aiutando persone in necessità a trovare lavoro. Forse anche a livello comunitario di Parrocchie e Diocesi, si deve pensare ad un modo più efficace di essere vicini a quanti faticano a trovare un lavoro abbastanza stabile, o a quanti lo hanno perso magari in età piuttosto avanzata e per i quali le speranze di essere riassunti si assottigliano con il passare del tempo.

6. FEDE E VITA 3. Per una fede risanante e consolante: le fragilità.
Quello delle fragilità è un tema che tocca sul vivo l’esperienza di ciascuno di noi. Come approccio sentiamo il bisogno di dichiarare che, per guardare alle fragilità ed alle ferite altrui, abbiamo necessità di riconoscere le nostre fragilità e le nostre ferite.
In questo senso, ci sembra, non esistono dei sani chiamati a prendersi cura dei malati, ma delle persone ferite e, qualche volta, guarite che si fanno compagni di viaggio di altri indigenti come loro.
Detto questo e assimilato tale contenuto, ci si può guardare attorno per individuare nel nostro territorio quelli che “rimangono indietro”, i deboli e i meno dotati.
Un aspetto che sta diventando sempre più urgente è la cura dell’incontro con chi, per motivi diversi, viene nel nostro paese e rischia di vivere in una condizione di emarginato, per la mancanza di una casa, di un lavoro o per la semplice impossibilità di comunicare nella nostra lingua. Il clima politico dei questo periodo poi invita pesantemente ad un atteggiamento di diffidenza, di chiusura, a volte di vero e proprio razzismo. Ci sentiamo di prendere le distanze da questo comune sentire, per aprirci invece ad un autentico spirito evangelico di sapiente accoglienza e integrazione.
Sul territorio ci sono molti importanti tentativi di vera integrazione ma sono da far conoscere e da incrementare.

7. FEDE E BENE COMUNE. Per una fede incisiva e decisiva nella e per la costruzione delle città a partire dai più deboli e ultimi: politica e solidarietà.
Anche questo tema, come il precedente, tocca da vicino la nostra vita religiosa. Il prendersi cura dell’altro, l’attenzione verso i poveri, richiama alcuni aspetti fondamentali della scelta della vita consacrata: la vita comunitaria e i voti, in particolare quello della povertà. Anche in questo caso dunque quando noi Religiosi e Religiose parliamo dei poveri dobbiamo avvertire chiaramente che quanto diciamo vale anzitutto per noi. Dobbiamo recuperare la consapevolezza di essere dei poveri tra i poveri e, a motivo della nostra povertà, possiamo avere una spiccata sensibilità nei confronti di chiunque viva in una condizione d’indigenza.
A partire da questa premessa possiamo dedicarci ad una proposta di percorsi di evangelizzazione che si traducano nell’educazione all’attenzione operosa verso l’altro. Riconosciamo che in questo c’è molto da fare: abbiamo da rifondare le nostre proposte in questa direzione.
È da rilevare però che, in generale, le comunità religiose spesso si trovano, nell’attenzione ai poveri, a supplire a molte mancanze di questa società incapace di venire incontro a chi più ha bisogno. A tutto questo va aggiunto che, come cattolici, dobbiamo fare di più per incidere maggiormente nell’azione politica e sociale della nostra Regione. Dobbiamo ritornare ad una sana e seria formazione alla politica, che non abbia timore di chiamare le cose con il loro nome, di annunciare quei valori che caratterizzano le comunità cristiane, e di far sentire la dimensione politica come dimensione propria di ogni cittadino e quindi di ogni credente.

Fra’ Matteo Siro provinciale cappuccini dell’Umbria
PRESIDENTE CISM UMBRIA

Fr. Leonardo Antonio De Mola piccoli fratelli Jesus Caritas
SEGRETARIO CISM UMBRIA

Commissione regionale per il Sovvenire – La seconda edizione del bilancio delle Chiese umbre sulla destinazione dei fondi dell’8Xmille sarà presentato a Perugia sabato 23 novembre

La seconda edizione del bilancio annuale delle Diocesi Umbre sui fondi dell’8xmille della Chiesa Cattolica e del Sostentamento del clero sarà presentato sabato 23 novembre alle ore 11.30 presso la parrocchia di Santa Maria della Speranza a Olmo di Perugia, alla vigilia della Giornata nazionale dedicata al sostentamento dei sacerdoti.
Il Servizio regionale per il Sovvenire presenterà alla stampa i bilanci 8xmille delle diocesi dell’Umbria (riferiti all’anno 2018), raccolti nella pubblicazione dal titolo: “8Xmille-soldi spesi bene”. Interverranno: mons. Luciano Paolucci Bedini Vescovo di Gubbio e delegato della Conferenza Episcopale Umbra per il Sovvenire; il diacono Giovanni Lolli coordinatore del Sovvenire per l’Umbria e delegato per la Diocesi Perugia – Città della Pieve; Matteo Calabresi direttore del Servizio della CEI per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica.
Nel pomeriggio dalle ore 15 alle 16 si terrà l’incontro “Chiedilo a loro live” con la presenza di testimoni delle opere realizzate con i fondi dell’8Xmille e la visione di otto filmati sulle opere diocesane, con allestimento di una sala multimediale ed una sala con un addetto dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero.
Seguirà alle ore 16 la tavola rotonda: “C’è un paese: 8xmille per lo sviluppo. Le opere della Chiesa locale realizzate con il contributo 8xmille” alla quale interverranno: il dicono Giovanni Lolli coordinatore del Sovvenire per l’Umbria; mons. Marco Salvi Vescovo ausiliare della Diocesi di Perugia – Città della Pieve; Umberto Folena giornalista e collaboratore di “Avvenire”; Matteo Calabresi direttore del Servizio della CEI per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica

Un ampio servizio sull’argomento è stato pubblicato dal settimanale regionale “La Voce” di questa settimana, mentre il documento sarà disponibile in tutti gli uffici diocesani del Sovvenire e del sostentamento clero e on line sui siti: www.sovvenire-umbria.it e www.chiesainumbria.it

Il bilancio annuale mostra al centesimo come, in Umbria, siano stati spesi i fondi dell’8xmille (circa 22 milioni di euro nel 2018) sotto forma di beni materiali e valori sociali, come servizi di sostegno allo studio, campi estivi, oratori, sport, formazione, settore alimentare delle Caritas, Progetto Policoro per il sostegno dei giovani nel mondo del lavoro.

«Progetti e iniziative che coinvolgono tante persone – spiega mons. Paolucci Bedini vescovo di Gubbio e delegato Ceu per il Sovvenire – e si avvalgono della loro opera volontaria. In tal modo moltiplicano a dismisura il valore degli investimenti. Ciò che sarebbe impensabile senza questa contribuzione diventa motore di rinnovamento, di apertura, infonde coraggio e speranza e tiene viva la coscienza comune della socialità. Sempre ciò che è per la Chiesa, si trasforma in qualcosa che fa bene a tutti: accoglie, accompagna, si prende cura, integra».

Dal bilancio si evince che nel 2018 sono stati assegnati alle otto diocesi dell’Umbria un totale di 3.837.829,15 euro per la carità; 8.878.133,19 euro per il sostegno dei sacerdoti, 5.038.602,39 euro per l’edilizia di culto, 3.982.221,13 euro per il culto e la pastorale, per un totale di 21.736.785,86 euro.

«Il documento – spiega il coordinatore di Sovvenire Umbria diacono Giovanni Lolli – mostra come nelle nostre diocesi sono stati utilizzati concretamente i fondi dell’8xmille, ma non riesce a quantificare in modo altrettanto preciso quale è stato l’utile prodotto da queste spese nella nostra regione. L’opera della Chiesa ha creato, nel suo moto di carità, opportunità di sviluppo e crescita per la società civile. Documentare questo di più, quantificarlo in cifre non è facile, perché quanto appare facile da capire con l’intuizione e il buon senso non è altrettanto facile da misurare con i numeri».

Nel documento, il bilancio di ogni diocesi è accompagnata da un breve scheda illustrativa di un’opera segno realizzata nell’anno sia con una foto e un breve testo che con un link ad un breve video con i protagonisti di quell’opera. Inoltre una sezione del documento (bilanci 8xmille) ogni anno è dedicata a capire come, in un certo settore, questi talenti sono moltiplicati. Una sezione del resoconto è riservato al settore alimentare delle Caritas, dove è evidenziato come quanto dato dall’8xmille e dalle altre fonti di finanziamento viene reso moltiplicato, il fattore moltiplicativo qui è compreso tra due e tre. A fronte di circa 0,8 mln di euro erogati ne vengono resi almeno 1,7 milioni di euro ogni anno. «Potremo proseguire nel documentare nei prossimi anni – aggiunge Lolli – il valore dell’assistenza agli anziani, il valore del servizio antiusura, quello del Progetto Policoro oppure il valore dei beni culturali e dell’edilizia di culto».

 

documento bilancio 8Xmille umbria 2018  

I video delle opere segno della Caritas realizzate con l’8Xmille

ASSEMBLEA REGIONALE – celebrazione dei Vespri – Omelia mons. Sorrentino

Vi offro qualche spunto di riflessione su questa lettura breve appena proclamata (Col 1, 3-6).
È un piccolo spaccato, ma tanto intenso, sulla vita di una delle comunità cristiane dell’Asia minore. Uno spaccato in cui risplende la comunione di preghiera tra l’apostolo, al quale è attribuita la lettera, e i cristiani ai quali si rivolge.
Un quadretto che tratteggia le dimensioni fondamentali della loro esperienza di fede.

Un dato ci colpisce, leggendolo nel contesto della nostra assemblea. Quello della comunità di Colossi è una realtà cristiana in “crescita”. I cristiani di Colossi hanno accolto il Vangelo come “parola di Verità”, e l’apostolo si rallegra per il fatto che esso “in tutto il mondo fruttifica e si sviluppa”.

A distanza di duemila anni, guardando la situazione della nostra Umbria dentro il quadro generale dell’Italia e dell’Europa, noi oggi siamo tentati di intonare il lamento.
Dov’è il cristianesimo che ha plasmato le nostre terre? Dov’è Francesco? Dov’è Benedetto? Dove il cristianesimo che ancora tanti vengono ad onorare riversandosi da tutto il mondo sui passi dei nostri eroi, che ancora parlano al mondo, e ancora ci offrono lo scenario in cui un Papa può persino – come ha fatto papa Francesco per il prossimo anno – convocare ad Assisi le energie più giovani e promettenti dell’economia mondiale?

Il cristianesimo, che ha fatto la storia delle nostre terre, diventa sempre più evanescente e marginale, sotto i colpi di processi culturali e sociali che svuotano le nostre case di famiglia, di vita e di fede, rendendo la nostra cultura, pur erede del messaggio evangelico, una cultura che di esso conserva certo alcuni valori fondamentali – quelli che hanno plasmato la nostra società diventando persino cultura politica – ma che sempre più stentatamente onora proprio il cuore pulsante dell’annuncio evangelico: Gesù, nella sua verità di “pienezza divina”, come la lettera ai Colossesi lo presenta, poco dopo questi versetti, in un potente inno, analogo a quello che la liturgia ci ha appena messo in bocca nella lettera gemella agli Efesini.

È su questa verità, la verità di Cristo che il cristianesimo si distingue, sta in piedi o cade.
Una verità che già nella prima evangelizzazione dovette essere accuratamente difesa, come appare anche nella lettera ai Colossesi. La fede appena germinata era già alle prese con la tentazione di annacquamenti dovuti a influenze culturali che l’intervento apostolico deve arginare.

In questi versetti prevale il positivo. Paolo rende grazie per le notizie ricevute circa la fede dei suoi destinatari. Rende grazie non solo per la fede: ringrazia anche per la carità che essi mostrano verso tutti i “santi”, ossia, nel gergo paolino, i cristiani stessi santificati dall’unica immersione nel Cristo.
È il quadro di una comunità che sa farsi comunione, cuor solo e anima sola, in un’operosa sollecitudine fraterna.
L’apostolo ringrazia infine per la speranza, che in queste parole è colta nella sua proiezione celeste, ma che, per essere speranza autenticamente cristiana, non può certo dimenticare questa terra, e dunque non può essere motivo di alienazione e disattenzione al mondo, ma al contrario dev’essere motivo per rimboccarsi le maniche nella sua costruzione secondo il cuore di Dio.

Fede, speranza e carità sono così intrecciate, che la mancanza dell’una pregiudica e devitalizza l’altra. Sono l’unico programma della vita cristiana, centrato su Cristo e il Vangelo come parola di verità.

Sarebbe bello anche per noi poter dire, come dice qui l’apostolo, che il vangelo si “moltiplica” e porta frutti in tutto il mondo.
Oggi siamo piuttosto tentati di dire che diminuisce e porta sempre meno frutti, stando a quanto la cronaca e le statistiche impietose ci documentano.

E tuttavia la re-immersione negli accenti delle origini cristiane è sempre ispirante e motivo di speranza.
Il miracolo delle origini può ridiventare il miracolo del terzo millennio cristiano. Il Risorto è lo stesso ieri, oggi e sempre (Eb 13, 8). E la forza della Pentecoste continua ad abitare le profondità della Chiesa come sorgente sempre viva.
Tocca a noi il coraggio di “rituffarci” nell’originario cristiano, ritemprarci all’acqua viva delle sorgenti, riprendere, per la nostra gente, l’annuncio della bella notizia come annuncio di vera gioia.
Lo facciamo senza la pretesa di prevedere e calcolare i risultati. Al seminatore spetta seminare. Il tempo del raccolto è nelle mani di Dio.
Ma intanto, anche in queste brevi espressioni appena proclamate attingiamo il motivo per ringraziare, anzi, la logica del grazie, la logica “eucaristica”, che anche nei frangenti meno facili e più problematici, ci impedisce di abbatterci e ci sprona all’entusiasmo della ripresa.
È quanto ci ripromettiamo, con l’aiuto di Dio, in questa nostra Assemblea.

Assemblea ecclesiale celebrazione – Omelia del cardinale Bassetti

A voi carissimi confratelli nell’episcopato; a te mons. Gualtiero, che ci hai accolto in questa Chiesa di Foligno; a voi carissimi fratelli e sorelle, fedeli di Cristo, giunti dalle varie Diocesi, a tutti pace e gioia dal Signore risorto.

Il nostro convenire in questi due giorni dell’Assemblea Ecclesiale regionale, voluta dalla CEU, e realizzata con tanta passione dal nostro presidente Mons. Renato Boccardo insieme all’équipe regionale, ci ha consentito di fare un’esperienza unica, di sentirci parte di una comunità, della santa Chiesa di Dio che vive nel mondo con la grazia dello Spirito e che si incarna nel cuore e nelle membra di ciascuno di noi.

Quello che abbiamo vissuto non è stato un convegno né tanto meno un congresso, ma un incontro di popolo, del popolo cristiano, che animato dalla Parola si mette alla ricerca di quel tesoro nascosto, che altro non è se non l’amore di Dio, l’unico capace di rendere piena la nostra gioia e di dare un senso vero alla vita.

Siamo qui perché ci sentiamo amati dal Signore e vogliamo condividere questo amore tra noi e trasmetterlo, come possiamo, ai tanti fratelli che vivono la sofferenza, l’abbandono, la solitudine. Trasmettere, condividere la “gioia del Vangelo” è l’atteggiamento di fondo che deve permeare ogni nostra azione e tutta la vita. Non nascondiamo la difficoltà di un incontro, di un dialogo a volte molto difficile con un mondo disilluso dalle promesse umane, stordito dai bagliori della tecnologia e del benessere, che non sente più il bisogno di interrogarsi sulla propria esistenza. Ma il cuore umano non si può imbrigliare, esso palpita, vibra e si scuote quando non si sente appagato e a questo non bastano le sicurezze umane. Ci vuole qualcosa di più, che il nostro intimo non smette mai di cercare. In questo scenario, a volte un po’ desolato, la Parola di Dio ci apre spazi infiniti, ci dona il coraggio e la forza per intravedere ciò che sta oltre: quella “luce gentile”, diceva il santo cardinale Newman, che ci penetra, e quel Volto che ritrae l’immagine vera di ciascuno di noi: il volto del Signore Gesù. Egli non ci lascia soli, ci viene incontro, parla al nostro cuore, sana le nostre ferite, e ci invia a portare a tutti la buona novella del Regno.

Carissimi, anche i temi principali delle Letture di questa domenica ci rimandano alla forza della preghiera e alla speranza della vittoria nell’ora della prova.

In primo luogo, la Parola di Dio ci esorta alla preghiera perseverante. Come quella di Mosè, che è protagonista della vittoria contro gli Amaleciti quanto Giosuè, che si trovava in prima linea, nel mezzo della battaglia, e combatteva con ben altre armi. Mosè invece, sul monte, insieme al sacerdote Aronne, è il mediatore che vede quanto accade al suo popolo, e si mette davanti a Dio con le braccia alzate.

Possiamo dire, carissimi fratelli e sorelle, che anche noi, pastori delle Chiese dell’Umbria, abbiamo ascoltato in questi giorni quanto ci veniva detto dai delegati delle comunità che siamo chiamati a custodire e guidare, e la prima cosa che ci impegniamo a fare – ancor prima di programmare piani pastorali o scrivere documenti – la prima cosa è proprio pregare. È con la preghiera che anzitutto comprendiamo, come deve aver capito Mosè, che non siamo noi a dover proteggere il popolo, ma è il Signore Gesù, che ha cura della sua Chiesa. È grazie alla preghiera, poi, che Dio ci purifica e ispira le nostre menti perché possiamo anche noi combattere la nostra “buona battaglia” comprendendo cosa dobbiamo fare, quali scelte possiamo e dobbiamo compiere. È la preghiera, poi, che ci permette di stare davanti a Dio con una confidenza e un’insistenza che ha il suo modello nella vedova importuna del Vangelo.

Il secondo tema delle letture di oggi viene dallo sfondo in cui è collocata la parabola di Gesù, come anche dal combattimento di Israele contro gli Amaleciti. In tutti e due i casi l’orante – che sia rappresentato dalla vedova o da Mosè – si trova in una situazione difficile, pericolosa, dove può perdere tutto: la vedova può perdere quello che le spettava, e che il suo avversario le vuole prendere; Mosè e il suo popolo invece rischiano addirittura di perdere la stessa possibilità di sopravvivere nel deserto.

Anche noi, cari fratelli e sorelle, ci troviamo in un tempo difficile – come ci ha ricordato ieri la relazione del prof. Diotallevi –, nel quale i molti e repentini cambiamenti a cui assistiamo rischiano di portare le nostre Chiese, se non ad una sconfitta, ad una pericolosa insignificanza. In questo tempo così complesso e che ci può mettere in crisi, la domanda di Gesù risuona più che opportuna: quando lui tornerà, troverà ancora la fede? Non lo sappiamo.

Ma, una cosa è certa: dobbiamo fissare lo sguardo al ritorno di Gesù; a Colui che «verrà a giudicare i vivi e i morti». Ci è stato promesso che non saremo soli per sempre, ma che il Signore verrà, e, se ora le nostre Chiese sono nella condizione di una vedova che grida perché il suo Sposo e i suoi figli, l’hanno abbandonata, Gesù ci chiede di fidarci di lui, come fa l’orante del Salmo 122, che, alzando i suoi occhi verso i monti, dice: «Il mio aiuto viene dal Signore».

Per grazia di Dio le Chiese dell’Umbria si sono trovate in questa bella esperienza di sinodalità e hanno avuto il coraggio di guardare con gratitudine al passato, di analizzare il presente, e di gettare anche uno sguardo più lontano, sul futuro. Non tutto ci è chiaro, e, se la situazione che abbiamo visto, in qualche tratto, è preoccupante, non deve mancare la speranza che da essa possono maturare frutti che nemmeno riusciamo ora ad immaginare. Ci ha ricordato Mons. Brambilla, commentando la prima lettera di Pietro: «Non si può rendere ragione della speranza viva se non innestati nel grande edificio della vita ecclesiale. Fuori di essa la speranza è solo un azzardo fallace, un tentativo destinato ad andare a vuoto». Ci è chiesto uno spirito di figli, che, strettamente uniti alla pietra viva che è Cristo, rendano credibile la propria testimonianza, ricompongano le lacerazioni e contengano le derive. Uniti intorno a Cristo Signore possiamo portare veramente il frutto che la Chiesa e la società si aspettano da noi. Uniti intorno al Signore si superano le paure delle battaglie, anche quelle più aspre, e si scopre che è in lui che ogni speranza si realizza, ogni vittoria arriva e ogni buio lascia spazio alla luce di un giorno nuovo. In Lui troviamo la forza di parlare alle famiglie di oggi, così provate dalla secolarizzazione, ai giovani che cercano faticosamente di costruire il loro futuro, a quanti, anche tra noi, sono provati dalla povertà e da situazioni di vita dolorose. Papa Francesco, al Convegno ecclesiale di Firenze, ha chiesto alla Chiesa italiana di far propri i tratti dell’umiltà, del disinteresse e della beatitudine. «Una Chiesa che presenta questi tre tratti – disse papa Francesco – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente». È una Chiesa presente, che si carica delle ansie dei suoi figli e ne condivide le gioie, che sa infondere fiducia. Nella logica del Vangelo, è la fiducia che muove l’uomo che – come ci ricorda l’icona biblica di questa Assemblea – si fida di Dio al punto di lasciare tutto e vendere quello che ha per comprare il campo dove ha trovato il tesoro.

Chiediamo al Signore, per intercessione dei nostri santi, di rivelarci cosa dobbiamo abbandonare e di darci la forza per cercare quel Regno che è nascosto, ma che, siamo sicuri, c’è, anche qui, in questa terra benedetta, anche oggi: un Regno che non mancherà di far fruttificare i semi che ci impegniamo a seminare ancora in questo campo. Amen!

Conclusioni di Mons. Boccardo presidente della Ceu

«Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una “semplice amministrazione”. Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione” (EG 25)… Affinché questo impulso missionario sia sempre più intenso, generoso e fecondo, esorto ciascuna Chiesa particolare ad entrare in un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma» (EG 30).

«Nessuno può intraprendere una battaglia se in anticipo non confida pienamente nel trionfo. Chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. Anche se con la dolorosa consapevolezza delle proprie fragi lità, bisogna andare avanti senza darsi per vinti» (EG 85).

INTRODUZIONE

Non una conclusione, ma una sollecitazione per un rendimento di grazie che richiama quanto abbiamo vissuto negli incontri preparatori nelle nostre diocesi e nell’esperienza di queste due giornate

Vorrei dunque aiutare tutti noi ad esprimere un ringraziamento che consiste nel
a) proclamare la presenza del Signore che ha presieduto all’Assemblea Ecclesiale

b) riconoscervi l’azione dello Spirito Santo

c) con la consapevolezza delle ricchezze e delle povertà che l’Assemblea ha messo in luce

d) un ringraziamento concreto di prospettive pastorali e di impegno di vita: occorre
– guardare avanti
– senza accontentarsi più del “si è sempre fatto così”
– rispondere alle attese
– trovare audacia e coraggio
– rivedere l‘agire pastorale per concentrarsi sulla scelta fondamentale dell’evangelizzazione

1. COSA ABBIAMO VISSUTO

Possiamo dire che nell’Assemblea Ecclesiale abbiamo
a) compiuto un atto d’amore per la nostra Chiesa e il nostro territorio
– l’amore comporta sempre uno sguardo amoroso, non ansioso, rassegnato e ingenuo, ma coraggioso e capace di guardare al futuro
– l’amore maturo sa vedere ed amare la realtà (la Chiesa) così come è, e nello stesso tempo desidera – “sogna” – che essa sia sempre più vera, più bella, più affascinante
– uno sguardo che ha espresso la passione per la nostra Chiesa, la preoccupazione per la nostra Chiesa, la fiducia per il futuro della nostra Chiesa.

b) vissuto una esperienza di “sinodalità”, che non è un metodo come tanti per dare la parola a tutti e agevolare l’ascolto reciproco e le conclusioni condivise; la sinodalità ci aiuta a vivere pienamente il nostro essere popolo di Dio in cammino, in discernimento e ascolto reciproco, fino a programmare insieme, decidere insieme e operare insieme; esprime il cuore stesso del nostro essere comunità di discepoli alla scuola dell’unico Maestro che è Cristo guidati dal suo Spirito; nasce da una conversione che parta dal cuore e da motivazioni spirituali, non solo funzionali.

c) iniziato (o continuato) un processo, seguendo l’insegnamento di Papa Francesco, che con Evangelii gaudium ci ha ricordato che nella attività pastorale il nostro impegno deve essere quello di iniziare percorsi, cammini, lasciare un’impronta e consegnare al futuro uno stile: la passione di essere sempre più Chiesa-comunione in missione (cf nn. 222-225).

2. CON QUALI ATTEGGIAMENTI

a) grande impegno, coinvolgimento personale, serietà con cui i delegati hanno lavorato durante tutto questo anno e anche oggi

b) una maturazione di coscienza e di conoscenza ecclesiale: una crescita nel senso di appartenenza alla diocesi, una maggiore consapevolezza della situazione delle nostre Chiese con i loro problemi e ricchezze, uno sviluppo della corresponsabilità nella vita delle comunità e della Chiesa locale

c) un clima di dialogo, di rispetto reciproco per le diversità di visioni e di opinioni, di cordiale ascolto vicendevole, che ha permesso una buona lettura della realtà ecclesiale, una migliore conoscenza del territorio e della vita della gente

3. QUALCHE DIFFICOLTÀ E FATICA

a) la prima e più grande fatica è certamente quella di leggere la realtà, ecclesiale e del territorio. Essa deriva forse dalla scarsa abitudine a confrontarsi e a dialogare in maniera “sinodale” e anche l’ambiente circostante può spingere ad una lenta rassegnazione o ad una passiva accettazione del “si è fatto sempre così”; c’è la tentazio- ne di credere che non possa cambiare

b) una seconda fatica, che confirma di fatto la necessità di essere una Chiesa “in uscita”, una Chiesa “che si sporca nelle periferie”, è la fatica ad accettare la realtà del mondo, a guardare con compassione e cordialità alle “ferite” della gente; facilmente tendiamo al moralismo, al giudizio e al pregiudizio che separano dalla vita delle per sone e non mostrano la gioia e la misericordia del Vangelo

Ancora Papa Francesco ci ricorda che la realtà è più importante dell’idea. Siamo portatori di una promessa e di un attesa: è l’ideale del Vangelo ciò a cui tendiamo e per cui lavoriamo. Ma è un ideale che necessita di essere incarnato in una realtà umana fatta di volti e di storie, dove dobbiamo sempre ricercare e favorire “il bene possibile”. Sfuggire al confronto con la realtà porta ad essere sradicati, idealisti, fondamentalisti. L’incarnazione è il criterio di fondo: Cristo è venuto nella carne ed è la carne di Cristo che noi valorizziamo, è la carne di questo popolo che noi curiamo (cf EG nn. 231-233).

4. LE PAROLE RICORRENTI

a) ascoltare
– la Parola per una fede adulta che susciti cristiani robusti, gioiosi, liberi; che conduca ad assumere una “mentalità cristiana”
– la gente per una presenza nel mondo di cristiani appassionati del bene comune e della vita delle persone. Questo richiede una autentica conversione missionaria non procrastinabile; una rinnovata misericordia e una ricercata e voluta compassione per incarnare l’amore evangelico dentro il quotidiano della vita; la disponibilità ad affrontare con serenità e serietà le grandi provocazioni del tempo in cui viviamo

b) appartenere
– alla Chiesa, che è la diocesi, di cui la parrocchia e le unità pastorali sono delle cellule; le unità pastorali, che rappresentano non il passato rispolverato ma il futuro, devono diventare lo snodo e il collante tra parrocchia e diocesi

– l’Eucaristia domenicale dà il polso e garantisce l’esistenza e la crescita del senso di appartenenza (chi si allontana dalla Chiesa lascia anzitutto l’Eucaristia; chi ritrova il senso della Chiesa recupera anzitutto la partecipazione all’Eucaristia)

c) formare
– formazione è stata la parola più ricorrente (significa che la formazione è la più necessaria e insieme la più carente)
– formare (dare forma) l’uomo, il cristiano, la coppia, i preti, gli operatori pastorali, i cristiani impegnati nella vita pubblica, i giovani…
– tale formazione richiede itinerari differenti (ai fedeli laici non è chiesto di essere ecclesiastici ma ecclesiali) e una grande perseveranza nel cammino; non si misura dal numero ma dalla qualità delle proposte: «L’uomo abile è colui che raccoglie molto; l’uomo di Dio e di fede è colui che non smette di seminare»
– dare vita ad esperienze, luoghi e istituzioni in grado di contaminare il presente con la buo na notizia del Vangelo di Gesù

d) andare
– incontro alle fatiche, ferite, domande
– ed offrire una “cura” misericordiosa, che pone al centro “i poveri”
– raccontando con lo stile della vita quotidiana quanto è bello essere discepoli di Gesù
– è lo “snodo” di una Chiesa “in uscita”: accogliere, discernere, integrare, accompagnare.

Ormai sono innumerevoli le affermazioni di Papa Francesco sulla necessità, per la Chiesa, di “uscire”, con le ricadute pastorali per quanto riguarda le relazioni interne alla comunità cristiana, i suoi rapporti con il mondo, l’evangelizzazione, l’attenzione ai poveri, ecc. Basti
pensare alla celebre variazione sul tema delle pecore, dell’odore delle pecore, della inopportunità che si resti a “pettinare le pecore” rimaste nell’ovile…

L’urgenza di “uscire” è innanzitutto uno stato d’animo che dovrebbe generare una situazione totalmente nuova. Il rischio è che di fronte a un ideale così alto, si finisca per rifugiar si nella semplice impossibilità di attuarlo. Non ci sono mani che guidano l’uscita e quindi si rinuncia ad uscire. Dobbiamo invece affermare con forza che il rendersi conto di queste difficoltà di base serve non per evitare di affrontare il transito, ma per affrontarlo davvero.

5. QUALE CHIESA PER IL FUTURO

a) una chiesa in ascolto, perché senza Parola la fede muore o al massimo rimane o diventa religione che non tocca la vita (mettere la Parola a fondamento)
b) una chiesa eucaristica, che trova la gioia nel Signore Risorto. È lui che continuamente la rianima, la rinnova, la manda nel mondo e la fa essere unita nelle diversità (l’Eucaristia al centro)
c) una chiesa maestra di formazione, che ha cura della crescita bella, vera e matura delle persone: cristiani adulti, coraggiosi, liberi, il cui atteggiamento morale non è “costrizione” ma scoperta della verità e della bellezza della vita e delle cose che la com pongono (la persona come progetto)
d) una chiesa in movimento, movimento dei piedi, delle mani, ma prima ancora degli occhi, degli orecchi, del cuore; una Chiesa “buon samaritano”, una Chiesa che non ha paura di contagiarsi abbassandosi al livello dei più poveri, dei più feriti, dei più stanchi, dei più peccatori.

6. E ADESSO?

– il risultato dei tavoli di lavoro sarà affidato alla Segreteria, che lo consegnerà ai Vescovi, cui spetta accogliere, discernere e “restituire” alle Chiese quanto dalle Chiese hanno ricevuto
– ad ogni diocesi la possibilità di prolungare nel tempo questo “stile sinodale”, soprattutto negli organismi di comunione; e forse anche alla nostra Regione ecclesiastica con esperienze simile a questa…
– molte indicazioni nasceranno non da considerazioni a tavolino, ma dalla capacità che avremo di ripensarci cammin facendo. Perché se è vero che molte “cose da fare” nascono da buone idee, è vero anche il contario: molte idee buone nascono dalle cose fatte. «In una visione evangelica, evitate di appesantirvi in una pastorale di conservazione, che ostacola l’apertura alla perenne novità dello Spirito. Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio» (Papa Francesco all’Assemblea CEI, 16 maggio 2016).

Attenzione poi ad un virus sempre presente nel tessuto ecclesiale e sociale:
– ci si rende disponibili ma poi non ci si coinvolge
– si comincia ma non si continua
– alle prime difficoltà si viene meno
– si vorrebbero vedere immediatamente i frutti
– si pensa che tanto ci sono altri che fanno.

7. UN RINGRAZIAMENTO

– alla diocesi di Foligno che ci ha accolto e al suo vescovo Mons. Gualtiero Sigismondi
– alla parrocchia di San Paolo (sacerdoti e collaboratori)
– alle parrocchie che hanno ospitato i tavoli
– a tutti coloro che, in modi diversi, hanno collaborato alla riuscita dell’Assemblea
– all’Ufficio Comunicazioni della CEU
– alla Segreteria, specialmente a don Luciano Avenati e don Marcello Cruciani
– a tutti voi, per il lavoro compiuto, per la passione manifestata, per i sogni coltivati…

8. CONCLUSIONE BENEDICENTE

– Ti benediciamo, Signore, per la Chiesa che è in Umbria, che tu da sempre ami come tua sposa e tuo corpo, e alla quale continui a mostrare tutto il tuo amore donandole incessantemente il tuo Spirito.

– Ti benediciamo, Signore, per questa nostra Chiesa, nella quale hai fatto fiorire la straordinaria santità di figli e figlie il cui nome risuona ancora sulle nostre labbra, e insieme con loro hai fatto fiorire la santità quotidiana, umile, tenace, di una schiera innumerevole di figli e figlie che attraverso i tempi della storia e le vicende della vita e del nostro territorio hanno fatto trasmesso noi la fede, facendo risuonare il tuo nome come garanzia di benedizio- ne e di speranza.

– Ti benediciamo, Signore, per il territorio in cui la nostra Chiesa vive, condividendo l’abitazione con gli uomini e le donne che lavorano, lottano, soffrono, sperano e amano per rendere più bella e più umana questa casa comune.

– Ti benediciamo, Signore, per le città e i paesi, per le valli e le montagne, per le bellezze della natura e dell’arte; ti benediciamo per quanti sono chiamati a ricostruire il tessuto sociale, lavorativo e morale nella perdutante crisi economica e dopo la dura prova del terremoto.

– Ti benediciamo, Signore, per i nostri vescovi, oggi ultimo anello della catena di pastori che hanno speso la vita per questo popolo; ti benediciamo per i presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose, per i fedeli laici che insieme spendono generosamente la vita nelle nostre comunità e per tutti quelli che animano la vita sociale con il fermento del Vangelo.

– Ti benediciamo, Signore, per la grazia dell’Assemblea Ecclesiale, che ci hai offerto come occasione favorevole per crescere nel senso di appartenenza alla diocesi, per discernere i segni dei tempi e ascoltare la voce dello Spirito, per diventare più capaci di guardare con amore e cordialità il nostro territorio, per farci attenti alle fatiche e alle ferite degli uomini e delle donne che camminano con noi, per ritrovare la gioia di vivere e di annunciare il Vangelo di cui siamo debitori nei confronti del nostro tempo.

La nostra benedizione faccia scendere sulle nostre Chiese la tua benedizione, Signore, perché il tuo Spirito vinca le resistenze, distrugga le divisioni, sani le ferite, elimini le pigrizie, bruci le mediocrità, e tutti insieme – Vescovo, presbiteri e laici – possiamo attuare quanto con questa Assemblea Ecclesiale ci hai fatto intuire. Amen.