Contributo della diocesi di Spoleto-Norcia

SINTESI  DEL  LAVORO DI DISCERNIMENTO IN PREPARAZIONE ALLA ASSEMBLEA ECCLESIALE DELLA REGIONE UMBRA

 

  1. VIVERE LA CHIESA – per una fede celebrata e condivisa: tessuto delle comunità, senso di appartenenza, qualità delle celebrazioni.

 

Il senso di appartenenza alla Chiesa si manifesta anzitutto nella gioia di esserlo; nella gioia di essere in questa nostra Chiesa; nel guardarla e sentirla con amore; nel vivere la sua vita; nel condividere le sue fatiche e le sue difficoltà. Sicuramente possiamo rendere grazie a Dio perché si è avviato un processo, che raccogliendo il frutto del  cammino ecclesiale fatto fino ad ora, si sta muovendo nella direzione di una maggiore consapevolezza del senso della diocesi, di una più evidente e comunque ricercata, anche se con fatica, “diocesanità” da parte dei presbiteri e dei diaconi, dei religiosi e delle religiose, delle parrocchie con le loro varie associazioni. In molti sta crescendo la consapevolezza che “essere cristiani significa appartenenza alla Chiesa. Il nome è “cristiano”, il cognome è “appartenenza alla Chiesa”.” (papa Francesco). La scelta della pievania come organismo di comunione e di collaborazione tra più parrocchie vuole favorire proprio questo senso vivo di appartenenza alla Chiesa

La collaborazione fattiva, la condivisione di responsabilità e di momenti significativi tra tutti i membri della comunità sono i principali segnali che evidenziano il senso di appartenenza alla diocesi, alla pievania e alla parrocchia. La visita pastorale dell’Arcivescovo ha favorito, rafforzato e fatto crescere nelle comunità parrocchiali e nei singoli fedeli il legame con la diocesi e l’importanza della partecipazione alla sua vita con i suoi vari momenti e celebrazioni. In questa direzione è stata di grande incidenza l’Assemblea sinodale 2016-2017. Di fatto si comincia a comprendere, per via esperienziale, che la partecipazione alla vita diocesana, lungi dall’indebolire la vita parrocchiale, al contrario la rafforza e la motiva  dandole un respiro ampio e vitale che garantisce la tenuta e il futuro delle stesse comunità.

Abituati a farlo e a vederlo forse non ci rendiamo conto e non sappiamo a sufficienza rallegrarci del fatto che ogni domenica molti cristiani, anche se con una percentuale che tende a diminuire e in mezzo alle tante difficoltà che derivano dalla conformazione geografica del nostro territorio e dalla complessa organizzazione della vita sociale, familiare e personale, continuano a radunarsi per la celebrazione eucaristica domenicale. Diverse comunità hanno certamente migliorato, con l’opportuna preparazione, la qualità delle celebrazioni domenicali rendendole dignitose e capaci di toccare la vita e il cuore delle persone.

Uno sguardo d’amore sulla nostra Chiesa non può tuttavia nascondere le debolezze e le resistenze relative al senso di appartenenza ecclesiale; se fosse così non sarebbe  uno sguardo di sincero e vero amore.

Tale realismo infatti è fondamentale per capire le ragioni delle  fatiche e  delle stanchezze nel portare avanti insieme il cammino diocesano sia in ordine alla comunione ecclesiale che per quanto riguarda la condivisione pastorale.

Infatti è ancora debole e spesso non ritenuto importante e necessario il senso di appartenenza alla diocesi; in alcune situazioni sembra quasi essere presente una sorta di “antagonismo” con la diocesi per cui lo stesso Vescovo è visto più che come pastore e centro essenziale di comunione e di vita, come un amministratore  o un “dirigente dell’azienda-chiesa”. Molti fedeli e diverse comunità sono ancora convinti che “ parrocchiale ” è meglio e più bello che “diocesano”. E’ certamente più sentito il senso di appartenenza alla parrocchia che alla pievania da molti ancora non conosciuta a sufficienza. Campanilismo e autoreferenzialità delle parrocchie sono spesso tra le principali cause che rallentano il cammino di rinnovamento della vita e della pastorale.

Di riflesso si fa ancora fatica a condividere il criterio pastorale della “eucaristia parrocchiale” che raduna le comunità minori che compongono la parrocchia. Il principio del “meno messe e più messa” , che meglio si dovrebbe dire “ meno messe e più assemblea (cioè esperienza di Chiesa) “ da molti condiviso e attuato, da altri anche se condiviso teoricamente, di fatto non viene messo in pratica. La gradualità, come rispetto della sensibilità e delle esigenze delle piccole e a volte disagiate comunità, appare ancora un motivo per non attuare un vero rinnovamento in tal senso.  Per questo motivo abbiamo ancora celebrazioni domenicali improvvisate, poco significative della fede gioiosa nel Signore risorto, espressive più di un certo individualismo religioso  che dell’essere e del fare chiesa, povere di canto, di ministeri e di parola che parli alla vita. Poche parrocchie hanno un gruppo liturgico che settimanalmente si raduna con la convinzione che l’eucaristia domenicale è il momento fondante e fondamentale della parrocchia. Forse dipende anche dalla qualità delle celebrazioni, oltre che da altri fattori di tipo sociale, culturale e religioso, la scarsa partecipazione dei fedeli alla messa domenicale.

La domenica, che trova nell’eucaristia il momento che la qualifica e la fa essere un giorno diverso dagli altri giorni, da molti cristiani non è più considerata giorno di riposo, né di ringraziamento a Dio, e nemmeno giorno della famiglia e delle relazioni; è diventato un giorno come gli altri, giorno dello agonismo sportivo, del consumismo e dello svago.

In ordine al senso di appartenenza alla Chiesa, la maggior parte dei laici fanno fatica ad assumersi impegni seri e continuativi o perchè troppo presi da impegni lavorativi o perché non si sentono all’altezza del compito loro affidato, e certamente perchè spesso è mancata e manca la necessaria formazione; a volte avvertono la mancanza di un clima sereno nella parrocchia, a volte non trovano spazio adeguato a causa di un clericalismo tardo a morire, a volte il deterrente deriva dalla presenza di un gruppo più o meno consolidato che tende ad accentrare su di sé le attività e i servizio senza dare spazio all’ingresso di nuove persone. Si riscontra anche una conoscenza superficiale delle persone e dei loro carismi, per cui queste vengono invitate a fare cose diverse da quelle per cui sono portate e formate; anche l’avvicendamento dei sacerdoti a volte compromette la continuità degli impegni assunti.

In questo contesto i consigli di partecipazione, meglio di comunione, è cioè i consigli  pastorali e quelli degli affari economici nella parrocchia e i consigli pastorali nella pievania, eccetto poche realtà, fanno fatica ad esistere e a lavorare; spesso sono soltanto formali e non hanno una ricaduta sulla vita delle comunità.

Spesso avvertiamo la mancanza del senso della comunità.  Mancando un vero senso della comunità, tutto resta delegato al sacerdote, per il quale tuttavia resta difficile trasmettere la fede e il senso della gioia da solo. In tal senso si avverte la mancanza di adulti consapevoli e attivi all’interno delle comunità ecclesiali; essi sono ovunque pressoché latitanti; in tal modo anche i figli fanno fatica ad avvertire il senso di cosa sia una comunità cristiana. Si nota inoltre che le comunità sono spesso frastagliate anche a causa del moltiplicarsi delle Messe domenicali; il frazionamento delle realtà locali che è un dato di fatto, spesso trova un’unica risposta nell’assicurare tante Messe per accontentare tutti; queste tuttavia vedono la partecipazione di pochissime persone e ciò non favorisce di certo né la dignità delle celebrazioni né lo sviluppo di un senso di comunità che pure è fondamentale. Gli stessi Sacramenti diventano più una festa privata che una festa della comunità.  Spesso manca alle nostre celebrazioni la gioia del radunarsi che ha come conseguenza la pesantezza della liturgia nella quali manca  il senso della fraternità,della vicinanza e della festa: troppo spesso le celebrazioni non sono “attrattive e attraenti”; prevale una certa aridità che coinvolge tutti, a cominciare dai preti; le stesse omelie spesso mancano di gioia e non parlano alla vita delle persone, sono piuttosto paternali, in esse manca l’annuncio principale, cioè che Dio ci ama. Tutto ciò spiega il motivo per cui la stragrande maggioranza dei cristiani  disertano la liturgia domenicale e un certo numero di quelli che vanno le vivono ancora come un “dovere”.

 

 

  1. GLI ADULTI E LA FEDE – Per una fede pensata e adulta: priorità degli adulti, problema dei linguaggi.

 

Abbiamo bisogno anzitutto di rendere grazie a Dio perché nella nostra Chiesa la Parola di Dio “ cresce e si sviluppa”   …corre , pur in mezzo a tante fatiche e difficoltà. E’ necessario prendere atto dell’impegno quotidiano dei presbiteri e dei diaconi, dei religiosi e delle religiose, dei catechisti e dei vari gruppi, degli adulti e delle famiglie che soprattutto nelle parrocchie annunciano e testimoniano la parola Dio con fedeltà e impegno, con gioia e pazienza, non vedendo spesso immediatamente i risultati di un servizio alla Parola sempre bello ma anche sempre molto esigente. Cresce il numero e la qualità dei laici che stanno maturando una  coscienza più viva del loro essere nella Chiesa diocesana, e quindi nella pievania e nella parrocchia, protagonisti responsabili della vita e della vitalità delle comunità cristiane . Il loro desiderio di formazione e la loro richiesta di maggiore coinvolgimento nell’annuncio del Vangelo, nella celebrazione liturgica, nella promozione della carità e nella partecipazione agli organismi di comunione ( consigli ) sono espressione di una crescita del senso di appartenenza alla Chiesa e alla diocesi, e quindi sono una segnale che va colto con gioia e al quale occorre dare una risposta significativa e robusta.

Il cammino ecclesiale che viene da lontano, ma che in ogni generazione si qualifica e si colora di scelte e sottolineature maggiormente rispondenti ai segni dei tempi, ci chiama a custodire e a rinvigorire in ordine all’annuncio della Parola, quanto in questi ultimi anni abbiamo posto come impegno pastorale prioritario: la lectio divina, la predicazione e in particolare l’omelia, il coinvolgimento delle famiglie nella trasmissione del vangelo alle nuove generazioni, il dialogo con gli uomini e le donne del nostro tempo che richiede una capacità di ascolto non sempre facile e un linguaggio a volte difficile da trovare, la missione tra la gente andando per le strade ed entrando nelle case.

In questo sguardo alla nostra Chiesa colpisce fortemente la presenza e l’attaccamento del popolo alle varie forme di pietà popolare che indubbiamente conservano un forte richiamo e manifestano una religiosità fatta di calore e di emozioni, spontaneità, immediatezza, e a volte di commozione. Emerge  tuttavia la necessità di riempire e restaurare “questo vaso” antico con la novità del Vangelo e con le ricchezze e le esigenze della parola di Dio.

L’assemblea sinodale, celebrata nel 2016-2017,  e il lavoro di preparazione all’Assemblea regionale  hanno tuttavia riscontrato un certo affaticamento, una certa stanchezza e a volte una evidente o velata rassegnazione nell’azione evangelizzatrice delle comunità. Tutto questo rischia di vanificare ogni progettazione pastorale, di nascondere e quasi rinnegare la gioia che viene dal Vangelo e dal suo annuncio, e quindi di non essere in grado di incrociare in modo significativo i percorsi e le domande degli uomini e delle donne del nostro territorio.

E’ abbastanza evidente che lo spessore della fede degli adulti delle nostre comunità è spesso debole: la fede è per molti devozionale, funzionale a ricevere i sacramenti, sganciata dalla vita vissuta. Emerge una fede “servita” più che una fede cercata e desiderata.  La lectio divina è partecipata da un numero ristretto di adulti forse anche perché non è proposta per quello che è, e cioè una lettura orante della Parola di Dio. La stessa omelia che rimane il nutrimento della fede per la maggior parte dei fedeli adulti tante volte invece di “riscaldare il cuore” lo appesantisce o lo lascia tiepido e distratto, e rende pertanto pesante sia l’ascolto che  la conseguente pratica della Parola ascoltata.

Gli adulti risultano essere in maggioranza quasi del tutto non evangelizzati, presi dalla vita quotidiana che non si interrompe mai nei suoi ritmi ripetitivi e frenetici. A parte alcune esperienze particolari e occasionali proposte agli adulti ( incontri dei genitori durante il cammino catechetico dei figli, un percorso diocesano di formazione per adulti partecipato da un piccolo gruppo,il cammino dei 10 comandamenti, itinerari di pochi movimenti) comincia ad essere sentito come una urgenza, un itinerario di fede per gli adulti che sia strutturato, sistematico e prolungato, e riparta da primo annuncio della fede. Tutto, sia per diversi preti che per molti laici, sembra troppo.

In questa situazione una delle cause maggiormente determinanti è il linguaggio, o meglio i linguaggi. A volte prevale un linguaggio sociologico, altre volte quello spirituale se non devozionale, come pure un linguaggio teologico-scolastico o banalmente discorsivo. Il limiti maggiore  è quello di un linguaggio a volte superato proprio nei termini, teorico e disincarnato che quindi non tocca la vita delle persone e non fa emergere le domande  e gli interrogativi importanti che comunque le persone si portano dentro e che attendono una risposta di senso.; prevale il pensato-teorizzato sul vissuto.

Per quanto riguarda gli adulti  non credenti o più o meno distanti dalla fede, non solo mancano spesso i luoghi e i momenti di confronto che comunque sono dati dalla vita quotidiana e dalle relazioni, ma soprattutto non abbiamo laici cristiani sufficientemente formati sia dal punto di vista della fede sia nella capacità di guardare e leggere in maniera “attuale” e “contemporanea” la realtà spesso complessa e pluralista.

 

 

  1. I GIOVANI E LA FEDE –  Per una fede “interessante” trasmessa alle nuove generazioni: coraggio innovativo.

 

Facciamo fatica ad ascoltare le nuove generazioni, ad incrociare i loro percorsi di vita, a lasciarci interrogare dalle loro domande e dai loro sogni, come anche dalle provocazioni dei loro discorsi e dei loro atteggiamenti: in rapporto a questo a volte ci sentiamo spiazzati  oppure rifuggiamo dal confronto. Di conseguenza diventa difficile e comunque faticosa ogni proposta vocazionale.

Per dare una risposta al non facile problema dell’educazione alla fede delle nuove generazioni, fermo restando che rimane “ un cantiere sempre aperto per una costruzione sempre nuova”,  danno  sentiamo che ci manca ancora la capacità di ascoltare i giovani prima di dare loro le risposte creando spazi di libero confronto; di conseguenza è necessario far partire qualsiasi proposta vocazionale dalle domande di senso della vita.

I giovani delle nostre comunità hanno molte paure: paura di non essere amati, di non essere considerati. Inoltre tengono in grande valore l’esteriorità, i “like”. C’è poi  la paura della precarietà: la mancanza di lavoro e di prospettive rendono generalmente molto complesso l’affidarsi e il fidarsi per i giovani; e da parte delle comunità c’è spesso la difficoltà all’ascolto senza pregiudizi o preconcetti.

In ambito ecclesiale si nota spesso una mancanza di luoghi dove incontrare i giovani, specie dopo il percorso della iniziazione cristiana. In diverse pievanie o parrocchie della diocesi esistono oratori o luoghi di incontro che svolgono, in sintonia con il Centro diocesano di pastorale giovanile, un certo servizio ai giovani con un percorso che prevede incontri periodici di vario tipo. Insieme ad un certo clima di gioia e di impegno emerge però a volte una certa “autoreferenzialità” delle esperienze quando invece sarebbe quanto mai necessaria l’apertura e il coinvolgimento negli altri settori della pastorale parrocchiale e diocesana. Va però tenuto presente che l’età è più adolescenziale che giovanile e questi luoghi sono oggi sempre meno attrattivi e a volte isolano rispetto agli altri giovani che non partecipano. E non è di grande consolazione, anzi di maggiore preoccupazione, il fatto che sono in crisi anche i luoghi di incontro e di aggregazione in ambito culturale, politico, sportivo e altro.

Emerge nelle nuove generazioni la mancanza, o meglio la fragilità, di una base umana che, in quanto tale, sta a monte di ogni proposta, e necessariamente condiziona l’annuncio e la trasmissione della fede. A questo si unisce di conseguenza una generale mancanza di interessi forti alimentata  da

una costante “catechesi al contrario”. Forte è il narcisismo di cui non soffrono soltanto i giovani ma anche gli adulti. Facciamo grande fatica a far incontrare le giovani generazioni con la persona di Gesù Cristo facendolo percepire come “interessante, affascinante, l’unico capace di rispondere alla ricerca di amore e di senso della vita”.Sicuramente gli annunci di fede sono stati piuttosto aridi e spesso superficiali, concettuali e poco esperienziali. È passata l’idea che la fede sia più un insieme di regole e concetti che non un esperienza di una Persona.

In tutto questo è quasi “drammatico” il problema del linguaggio che è lontano mille miglia da quello dei giovani.

Dall’altro lato si riscontra una grande difficoltà di crescere e di conseguenza di prendersi responsabilità. In ciò mancano spesso esempi di maturità da parte degli adulti che sono fondamentali perchè nasca nei giovani il desiderio di impegnarsi, mettersi in gioco, crescere con una progettualità.

Così affaticati e spesso  incerti e confusi  i giovani sono distanti dalla consapevolezza e dalla gioia  di  evangelizzare gli altri giovani; coloro che poi intraprendono un cammino di fede e si assumono l’impegno di annunciarla e testimoniarla vengono  spesso isolato dai coetanei. Manca al contempo una buona formazione per gli adulti che porti alla valorizzazione e che faciliti questo impegno dei giovani all’interno delle comunità; spesso i pochi giovani “impegnati” nelle comunità ecclesiali vengono poco ascoltati e anche tenuti in scarso conto; gli si fa fare di tutto ma non vengono mai spronati o coinvolti nelle decisioni da prendere. Non si può certamente generalizzare perchè in varie  comunità i giovani vengono valorizzati e accompagnati, con importanti esperienze significative  e impegni importanti; quando questo avviene allora i giovani diventano motivo di stimolo per gli adulti e riferimento per coetanei in difficoltà, che non di rado, seppur lontani dalla fede, vedono in questi giovani un aiuto sicuro nei momenti oscuri.

Le comunità e in particolare gli adulti fanno invece fatica a dar loro fiducia lasciandosi condizionare dal fatto che “ i giovani sono fragili”  Non riusciamo perciò a cogliere le attese e i sogni dei giovani perché siamo più intenti a proteggerli. Così facendo però  impediamo loro di uscire allo scoperto, di assumersi responsabilità, di scoprire quale è la loro strada, la loro vocazione. La volontà di proteggerli e controllarli da parte degli adulti è oggi giunta al punto che sogni, attese e vocazioni sono soffocate ed etero dirette dagli adulti stessi.

La percezione della vocazione al ministero ordinato sembra oggi leggermente migliorata; il fatto che i nostri seminaristi oggi partecipino visibilmente alla vita diocesana e si vedano spesso insieme, ha certamente favorito un miglioramento della suddetta percezione anche presso gli altri  i giovani, i quali se non altro sono portati ad interrogarsi per conoscere questa possibilità di vita. Anche il fatto che i seminaristi abbiano iniziato a proporre incontri con le varie realtà parrocchiali della Diocesi sembra aver favorito un miglioramento. Parimenti, le preghiere per le vocazioni, il pellegrinaggio alla Madonna della Stella ogni primo sabato di ogni mese e diverse iniziative hanno reso più accessibile a tutti il discorso intorno alla vocazione al ministero ordinato che di certo oggi sembra maggiormente sentito. Fa invece più difetto la percezione della vocazione alla vita religiosa, specie femminile, anche forse per la mancanza di visibili iniziative per farla conoscere e per la mancanza di un numero consistente di comunità religiose femminili nel nostro territorio diocesano.

 

 

  1. FEDE E VITA /1 – Per una fede capace di plasmare la vita: gli affetti.

 

Sappiamo che la realtà odierna è una realtà in cui si fa sempre più strada il disinteresse per l’altro; è una società che sfugge dalle responsabilità e dagli impegni; una società povera culturalmente e pervasa dal culto dell’apparenza; una società “economica” più che “umana”, una società “individualistica” più che “interessata al bene comune”; una società “relativista” più che “fondata sulla verità dell’uomo”. Di conseguenza una società con molti “ nervi scoperti “ riguardanti il rispetto della vita umana (concepimento, aborto, disabilità, fine vita), la centralità della famiglia ( sostegno alle famiglie e alla natalità, nuove forme di convivenza e di coabitazione, separazioni, divorzi), la visione della sessualità e dell’affettività (soprattutto nelle nuove generazioni), la priorità del bene comune nella politica ( personalismi, populismi e corruzione), la dignità, la necessità e la stabilità del lavoro (condizione indispensabile per la dignità umana e per la vita familiare). Parlare di affetti vuol dire riconoscere che la qualità della vita dipende dalla qualità delle relazioni; e questo vale sia sul piano umano che sul piano della fede.

Facciamo fatica a vivere l’importanza della presenza dell’altro e del contatto diretto, anche informale e non per questo meno vero e meno efficace, in tutte le situazioni e in tutti i luoghi in cui il cristiano si relaziona con gli altri, aprendosi al dialogo con rispetto e amore, e favorendo il confronto con i “lontani” e anche con chi pensa diversamente la vita, l’amore, la società. Facciamo fatica a credere davvero che il bene e l’amore, qualunque persona lo compia o lo viva, viene da Dio ed è secondo il suo progetto.

Il tema dell’affettività nelle nostre comunità è ancora un tabù al momento dell’annuncio, come se il Vangelo non lo toccasse affatto. Con i giovani qualcosa in proposito si cerca di fare ma spesso ciò avviene in modo collaterale, fuori certamente dal contesto dell’annuncio evangelico, come se il tema attenesse alla mera formazione umana e non toccasse la vita di fede.

Riconosciamo che come Chiesa abbiamo fortemente delegato la formazione all’affettività, con la conseguenza che le altre istituzioni che se ne occupano non sempre veicolano un insegnamento che collima con quello della Chiesa. Manca in generale tra gli operatori pastorali e anche tra i sacerdoti una buona formazione sul tema. Ci resta difficile offrire agli adolescenti e ai giovanissimi un percorso di educazione all’affettività e alla sessualità con la convinzione che una sana visione e impostazione di queste due dimensioni fondamentali della vita determina in maniera forte la costruzione dell’uomo e del cristiano; diversamente tutto diventa problematico e a volte drammatico.

La percezione che inoltre si registra tra i più, è che i cristiani e la Chiesa giudichi ancora in modo impietoso e sospettoso la sessualità. Non di rado i fedeli sentono da parte dei sacerdoti, specie in confessione, un certo giudizio e una certa condanna, atteggiamenti di certo non rispondenti al sacramento della riconciliazione e al ruolo balsamico che esso dovrebbe ricoprire nella vita di chi ha vissuto anche con sofferenza il peso del peccato.

Uno dei grandi problemi che oggi ci troviamo ad affrontare sia come comunità cristiana che società è quello dell’egoismo degli affetti. L’indipendenza e la sua ricerca spasmodica prevalgono sulla condivisione della vita. L’amore è percepito non come dono di sé all’altro ma come possesso “a tempo” dell’altro. Da questa impostazione di diffidenza verso i legami stabili deriva l’aumento dei cosiddetti single. Altro problema che si ravvisa è quello delle cosiddette famiglie allargate, frutto di quell’instabilità delle scelte che investe anche e soprattutto la vita di coppia e matrimoniale. Questo deriva certamente dalla mancanza di maturità affettiva; non si sa dare un nome ai sentimenti e molti di essi vengono persino scambiati per amore, anche se ne costituiscono l’esatto opposto: è  il caso del possesso, del dominio sull’altro e della ricerca del piacere personale.

Tra l’altro l’elevato numero di separazioni creano anche attriti tra genitori che non di rado ricado sui figli indebolendoli o segnandoli negativamente nell’affettività fin dai primi anni di vita.

Gli ambiti principali in cui si riscontra un impegno della diocesi nell’evangelizzazione degli affetti sono da un lato i corsi prematrimoniali e per fidanzati che certamente offrono alle coppie una buona opportunità e sono accettati ormai volentieri, ma che lasciano il discorso in sospeso; dall’altro si è tentato un percorso per i “separati” ma con scarsi risultati. Anche i movimenti offrono sia ai giovani che agli adulti proposte di cammini in tal senso..

Spesso l’Amoris Laetitia è pressoché ignorata.  Alcune iniziative sono state fatte: dagli  incontri di catechesi tenuti dai sacerdoti della Diocesi sulla stessa esortazione apostolica all’istituzione dei già citati corsi per separati. Pur tuttavia tanto i parroci quanto i fedeli impegnati spesso risultano poco formati ad affrontare i delicati temi e problemi presi in analisi dal Papa. Se qualcuno esprimesse il bisogno di un aiuto su questa materia, non di rado troviamo difficoltà a dare

risposte competenti ed in linea con il documento. Manca in generale apertura di cuore ed essa non

viene spesso nemmeno favorita, a cominciare dai sacerdoti stessi.

Facciamo fatica a mettere in atto una rinnovata ( nelle forme, nei tempi e nei contenuti ) evangelizzazione sul sacramento del matrimonio che mostrando la bellezza, la bontà e anche la fragilità dell’amore umano aiuti le nuove generazioni anzitutto a non avere paura di sposarsi, a progettare davvero il loro matrimonio e a non spaventarsi delle difficoltà e delle fatiche che accompagnano sempre la vita umana; in tale evangelizzazione rientra l’educazione all’affettività e alla sessualità dei giovanissimi perché le visioni distorte, le esperienze sbagliate e le ferite ricevute in questa età pregiudicano seriamente il resto della vita.

Facciamo fatica e a volte resistenza ad accogliere davvero, secondo lo spirito dell’Amoris laetitia quanti hanno visto fallire il loro matrimonio e ne portano le ferite avendo chiaro che le situazioni non sono tutte uguali e che quindi il fallimento non pone tutti nella stessa condizione ecclesiale. Se la legge morale non può che essere oggettivamente valida per tutti, la valutazione morale poi non può che essere personalizzata: trattare tutti allo stesso modo diventa ingiusto. Non è ancora maturato, sia nei pastori che nei laici, un nuovo approccio ecclesiale. 

 

 

  1. FEDE E VITA /2 – Per una fede concreta e incisiva: il lavoro, il tempo libero.

 

Nella nostra realtà sociale e quindi anche ecclesiale sembra che oggi il lavoro venga vissuto come un’ossessione, non solo per chi effettivamente lavora ma anche per coloro che sono preoccupati che i figli e i nipoti non avranno lavoro. Inoltre molti fanno un lavoro che non li soddisfa o che è precario. Il lavoro è l’ossessione di oggi. Quanto al riposo o è minimo, anche a causa della reperibilità continua resa tale dalle e-mail e dai cellulari, oppure diviene un altro stress.

Di lavoro si parla come di un problema; non è più un valore perché gli è stata tolta la sua connaturale dignità; tutto è letto e si sviluppa nell’ottica del mero profitto e questo crea frustrazioni che sviliscono anche il poco tempo libero che si ha a disposizione. La sola logica del profitto fa si che addirittura le donne debbano arrivare a nascondere la maternità o lavorare il fine-settimana per andare avanti. L’aumentare del bisogno di lavoro fa diffondere, specie tra i giovani, l’abitudine alla precarietà legata poi a scarsi pagamenti e ad uno sfruttamento istituzionalizzato. Questo fa si che i giovani programmino tutto in vista del lavoro ma al contempo, data la crescente precarietà, non possono fare programmi a lungo termine. In più è diffusa la percezione che lo studio non renda in termini lavorativi e dunque preferiscono non studiare; anche lo studio è dunque letto in un’ottica meramente utilitaristica e non come un valore in sé.

Tutto questo genera una lotta tra poveri che porta a vedere in chi ha più successo, specie se stranieri, un nemico. La percezione tanto del significato del lavoro quanto del tempo libero è uguale tra credenti e non credenti.

Spesso si ravvisa la mancanza di una moralità del lavoro anche tra i credenti. Sono molti i casi di imprenditori e di lavoratori che si dicono credenti eppure sottostanno alla logica del lavoro nero. Se qualcuno prova a far vedere uno stile diverso viene “guardato male”.

A livello di disoccupazione le parrocchie cercano di agire in qualche modo, ad esempio coinvolgendo disoccupati in servizi retribuiti a favore della comunità. Le richieste di personale da parte di imprese rivolte alla Caritas Diocesana d’altra parte è scarsissima.

La dottrina sociale della Chiesa è largamente ignorata, anzi si ha la percezione che la Chiesa su questi temi  dica nulla o poco, anche a livello locale. Talvolta addirittura sembra che ci sia la connivenza con un sistema errato; si sente poco parlare di peccati sociali. In più non si fa nulla per condannare i favoritismi e le raccomandazioni, specie nel pubblico, ove la Chiesa sembra stare dalla parte di chi usa scorciatoie.

In Caritas si è cercato di fare qualcosa per aiutare chi non trova lavoro, favorendo l’accesso a vie lecite per l’occupazione; tuttavia non si ha il coraggio, anche a livello ecclesiale, di prendere le responsabilità per gli innumerevoli casi di raccomandazioni. Manca poi un coinvolgimento dei cattolici a livello politico e sociale, i quali portino avanti “con la schiena dritta” questi valori.

Purtroppo in questo ancora non ci sono troppe differenze con i non credenti.

Oggi la società non ha altra percezione del tempo libero se non quella consumistica ed evasiva. La società non offre altro se non centri commerciali e svago. Certo è vero che i centri commerciali danno lavoro ed è altrettanto vero che è molto complesso offrire, a livello parrocchiale e di  comunità cristiana, cose alternative “competitive”. In diocesi ogni anno è offerta la festa della famiglia; il centro giovanile diocesano offre varie occasioni di incontro festoso.  In qualche parrocchia sono stati fatti alcuni tentativi, di breve durata, per fare della domenica un giorno di incontro fraterno e distensivo che completasse  il senso della festa, che trova nell’eucaristia il suo centro, facendo ritrovare famiglie e ragazzi negli spazi parrocchiali. La breve durata di tali esperienze ha messo in luce che il problema è soprattutto culturale: la cultura prevalente non accetta l’idea che il tempo libero non sia solo per se stessi ma che si possa usarlo anche per gli altri, a servizio di una comunità. Sia per quanto riguarda il lavoro come anche il tempo libero rarissimi sono stati i momenti offerti dalla comunità ecclesiale per una riflessione chiara e intelligente.

 

 

  1. FEDE E VITA/3 – Per una fede risanante e consolante: le fragilità.

 

Nel nostro territorio l’atteggiamento più diffuso nei confronti delle persone ferite dalla vita è quello del giudizio morboso. Si vuol conoscere perché una persona si trova nella situazione di sofferenza che la caratterizza; questo interessamento non risulta il più delle volte finalizzato  alla solidarietà e dunque non si traduce in aiuto concreto.

Anche se c’è chi si impegna ad essere punto di riferimento e sostegno per chi mostra ferite e sofferenze, questi sono purtroppo una esigua minoranza.

Coloro che sono nella sofferenza sono molto poco incoraggiati a bussare alla porta della comunità. Da un lato la comunità stessa è chiusa o poco disposta all’accoglienza; prevale l’idea che si possa fare poco per risolvere i problemi e questo crea l’immagine di una comunità che fatica ad accogliere chi ha difficoltà.

Certamente è presente una certa distanza tra le domande, i bisogni e le attese che manifestano la fatica del vivere degli uomini e delle donne presenti nel territorio della nostra diocesi, e le risposte effettive che le comunità cristiane e i cristiani che le compongono riescono a dare.

Tuttavia non possiamo non mettere in luce i tanti segni e segnali di attenzione, di “compassione”, di “simpatia” e di “misericordia” che la nostra Chiesa con le comunità, soprattutto parrocchiali, che la compongono, ha messo e mette in atto continuamente, mostrando così la docilità allo Spirito che la sospinge e la sua attenzione “cordiale e fattiva” alle persone soprattutto ai più poveri, ai più sofferenti, e ai più in difficoltà.

Come non riconoscere i tanti uomini e soprattutto le tante donne, gli operatori delle caritas, i volontari a vari livelli, i ministri straordinari dell’Eucaristia che prestano servizio, quasi sempre gratuitamente, a quanti fanno fatica a vivere ?

Come non tener presenti le caritas parrocchiali, i centri di ascolto, i centri di distribuzione di beni di prima necessità, la Mensa della misericordia, l’OAMI, il Centro educativo dell’Opera di S. Rita di Roccaporena, le Lacrime, la presenza dei volontari nelle carceri…?

La caritas diocesana e le caritas parrocchiali o di pievania con il loro servizio costante, nascosto e umile, silenzioso e spesso difficoltoso, ormai da anni mostrano il volto “materno, paterno, fraterno e amicale” della nostra Chiesa.

Il riconoscimento pubblico del valore e della importanza di tale servizio apprezzato dalle strutture pubbliche di solidarietà, e  la collaborazione ricercata da esse, mostrano quanto  sia importante, preziosa e ormai insostituibile tale azione caritativa e solidale della diocesi nel nostro territorio.

Qualunque cosa si riesca a fare in ordine alla carità e alla solidarietà sappiamo bene che c’è ancora molta strada da fare e che non possiamo ritenerci semplicemente soddisfatti o arrivati: l’amore evangelico che Cristo chiede alla sua Chiesa è sempre un traguardo che ci sta davanti e che rimarrà davanti alle comunità cristiane sino alla fine della storia l’amore vero infatti è quello che non ha misura.

D’altronde uno sguardo realistico alla storia e alla società in cui viviamo, e un’attenzione intelligente e leale al nostro territorio ci permettono di scoprire e quindi di venire a contatto con le nuove forme di povertà che esprimono in molto più complesso e drammatico la fatica del vivere: anziani sempre più soli; adulti e giovani senza lavoro; famiglie vittime dell’usura; separati appesantiti dalle conseguenze affettive ed economiche della separazione; giovanissimi, giovani e adulti dipendenti da alcool, droga, divertimento trasgressivo, gioco; utilizzo schiavizzante delle nuove tecnologie e dei social net-work;  isolamento e chiusura dei giovani con conseguente limitatezza delle relazioni, visione pessimistica della realtà, orizzonti progettuali confusi e limitati, paura di affrontare i problemi, difficoltà nel chiedere aiuto o nel lasciarsi aiutare, non apprezzamento della vita fino al suicidio. Anche la pastorale familiare ha approntato servizi di ascolto per coppie in difficoltà ma anche in questo caso si ravvisa una carenza di collaboratori e la connessa incapacità di rispondere adeguatamente a tutte le problematiche che si presentano

Tutto questo chiama la nostra chiesa e le sue comunità a mettere in circolo le forze migliori, a ripensare in modo nuovo e coraggioso l’azione delle caritas parrocchiali, a interagire, nel rispetto delle rispettive finalità e dei differenti ambiti, con i vari enti, associazioni e istituzioni pubbliche per una azione maggiormente efficace e per quanto possibile risolutiva dei problemi. Tale collaborazione con l’assistenza sociale pubblica è presente ma non basta. Tra l’altro le numerose regole e leggi limitano spesso l’attività dei volontari. La sinergia con le strutture pubbliche si esprime principalmente nei centri di ascolto, ma si ravvisa la carenza di una loro diffusione capillare nel territorio, quando invece essi costituiscono un elemento fondamentale onde favorire suddetta collaborazione.

E’ dunque evidente che l’azione delle comunità cristiane non può ridursi, come non di rado avviene, alla distribuzione di cose, all’assistenzialismo e alla improvvisazione delle opere della carità. Occorre un’azione caritativa più intelligente e più capace anzitutto di ridare speranza alle persone in difficoltà e di mettere in atto processi di liberazione dalle cause soprattutto delle “nuove forme di povertà” che sono più complesse, insidiose, invasive e devastanti.

Per questa ragione spesso le nostre comunità, pur con la loro azione apprezzabile e generosa, si scoprono “indietro” e a volte  “ in ritardo” rispetto alle domande e alle attese della gente. Spesso diamo l’impressione di essere cristiani che vanno  incontro ai poveri di tanto in tanto con i vari interventi, più che compagni di viaggio che sanno stare accanto “togliendoci i calzari”.

Questo fa capire che è carente la formazione spirituale, culturale, umana e operativa di quanti hanno il “servizio della carità”.

 

 

 

  1. FEDE E VITA/4 – Per una fede incisiva e decisiva nella e per la costruzione delle città a partire dai più deboli e ultimi: politica e solidarietà.

 

Le nostre comunità fanno fatica ad incrociare le strade degli uomini e delle donne del nostro tempo, e appaiono tante volte ripiegate su se stesse e malate di una certa “chiusura intraecclesiale”. Ma questo non può farci dimenticare quanto esse siano legate al vissuto della gente. Basterebbe ricordare la presenza capillare delle parrocchie nel territorio e la vicinanza dei presbiteri e dei fedeli accanto alle persone che faticano, soffrono e sperano nel cammino di ogni giorno.

Le nostre parrocchie, pur con tutti i limiti e le stanchezze, rimangono “la fontana del villaggio” alla quale tutti possono attingere gratuitamente, senza misura e con facilità. Vanno  poi ricordati i tanti cristiani che nella vita di tutti i giorni e nei vari contesti di vita: famiglia, scuola, lavoro, relazioni occasionali, politica, volontariato, mondo sanitario, emarginazione e disagio giovanile e familiare..) vivono dentro le situazioni di frontiera e sanno dire “parole di Vangelo” e compiere “azioni di vangelo”. A questo si aggiungano i segnali che la diocesi sta dando con alcune iniziative ricorrenti che mettono in luce la preoccupazione di essere in uscita verso le famiglie, i giovani, i luoghi dove la gente vive e cioè la casa e la strada.

Per poter rafforzare questo orientamento, oggi urgente, occorre evitare il rischio, in cui cadiamo frequentemente, di demonizzare il mondo e di non vedere nella sua complessità, nel suo pluralismo e perfino nel suo relativismo, i segnali di un mondo che sta finendo e soprattutto i segnali di un mondo nuovo che ha bisogno soprattutto dei cristiani per realizzare un “nuovo inizio”. S. Paolo non parlava già allora che il mondo geme e soffre come nelle doglie del parto ? ( cfr. Rom. 8 ).  Ora questa gestazione è sempre in atto e vale anche per il nostro territorio e la nostra Chiesa.

Dunque, pur vedendone le contraddizioni, le derive e le ferite, siamo chiamati a guardare con uno sguardo amoroso  il mondo, la gente, il territorio per cogliere “ i semi del Verbo” in essi presenti, per riconoscere che laddove gli uomini vivono, lavorano, lottano e sperano, mostrano la loro debolezza e perfino confusione, lì è presente ed agisce lo Spirito di Dio. Facciamo molta fatica a credere questo.

Molti cristiani e non poche comunità, gli adulti e soprattutto i giovani,  faticano a  fare una lettura critica della realtà senza la quale non c’è crescita e novità. A volte si ha la sensazione che abbiamo rinunciato alla missione profetica che ci è stata affidata e che consiste nel saper “leggere la realtà”  vedendo in essa la presenza del Signore che guida sempre la storia, i passi ulteriori da compiere, i cambiamenti da realizzare, le denunce da fare: e tutto questo per favorire un umanesimo integrale, cioè il bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo. Siamo infatti convinti che il nostro territorio non è meno attraversato, a motivo della sua configurazione geografica e delle sue caratteristiche ambientali, dalla mentalità e dai comportamenti che sono presenti nell’intera società. Siamo poco “attrezzati” in ordine alla conoscenza della realtà con le sue fatiche nascoste e le sue ferite profonde, conoscenza  che nasce da un dialogo senza pregiudizi, da un discernimento intelligente, da una  capacità critica sapiente. Abbiamo bisogno pertanto superare una certa “povertà culturale” che ci rende poco capaci e abituati a  pensare, discernere e  progettare insieme il vivere degli uomini di questo tempo.

E’ scarsamente presente nella coscienza dei cristiani, preti e laici, che, secondo l’insegnamento costante della Chiesa,  “il primato della persona” è il criterio non negoziabile e sicuro per fare un vero discernimento sulla realtà e per valutare comportamenti, idee, visioni di vita e di società. Tante volte si ha la sensazione che in molto cristiani la fede in Gesù e l’accoglienza del vangelo non incidono sul modo di vedere la società  e di stare dentro di essa in maniera significativa.

In questo ambito, anche se qualcosa di sporadico è stato fatto (come i tavoli di lavoro dopo l’Assemblea sinodale e alcune conferenze cittadine), non abbiamo il coraggio di  promuovere un percorso di formazione politica per preparare i laici cristiani a stare dentro l’impegno socio-politico immettendovi i fermenti del Vangelo; d’altronde è chiaramente urgente la formazione delle nuove generazioni ad una rinnovata passione politica che cerchi il bene sociale. La fatica a coinvolgere i giovani sia nell’azione caritativa come in quella politica crea preoccupazione per la società che stiamo costruendo.

E’ dunque evidente che l’azione delle comunità cristiane non può ridursi, come non di rado avviene, alla distribuzione di cose, all’assistenzialismo e alla improvvisazione delle opere della carità. Occorre un’azione caritativa più intelligente  cioè una carità che sia politica e una politica che sia “forma alta di carità” soprattutto di fronte alle. “nuove forme di povertà” che sono più complesse, insidiose, invasive e devastanti.

Per questa ragione spesso le nostre comunità, pur con la loro azione apprezzabile e generosa, si scoprono “indietro” e a volte  “ in ritardo” rispetto alle domande e alle attese della gente mentre appare sempre più urgente, e tanti cristiani non se ne rendono conto, la necessità di elaborare un nuovo progetto di società che, ponendo più chiaramente al centro la persona, promuova un vero umanesimo integrale. Tanti nostri cristiani non pensano o non riescono a pensare questo.

Se così è, allora rischiamo di rimanere indifferenti, anzi quasi di collaborare, al rafforzamento  una società “economica” più che “umana”, una società “individualistica” più che “interessata al bene comune”; una società “relativista” più che “fondata sulla verità dell’uomo”. Di conseguenza una società con molti “ nervi scoperti “ riguardanti: il rispetto della vita umana (concepimento, aborto, disabilità, fine vita), la centralità della famiglia ( sostegno alle famiglie e alla natalità, nuove forme di convivenza e di coabitazione, separazioni, divorzi), la visione della sessualità e dell’affettività (soprattutto nelle nuove generazioni), la priorità del bene comune nella politica ( personalismi, populismi e corruzione), la dignità, la necessità e la stabilità del lavoro (condizione indispensabile per la dignità umana e per la vita familiare).

Questi fenomeni attraversano chiaramente la società civile e la comunità ecclesiale e chiamano tutti i fedeli ad essere cittadini esemplari e cristiani impegnati portando, come anni or sono diceva un vescovo italiano, la vesta battesimale nel mondo e la tutta di lavoro nella Chiesa: non siamo infatti dei separati dal mondo ma dentro il mondo. Occorre colmare il divario tra fede e vita, tra società e Chiesa.