La solennità di San Giuseppe cade, quest’anno, in un’ora della storia del mondo segnata dal conflitto in Ucraina. La cronaca di questi giorni difficili, destinati a lasciare sul campo un fiume in piena di sangue e di lacrime, ci chiama a fissare lo sguardo sul ritratto dello Sposo di Maria, “uomo giusto” (Mt 1,19), tracciato da Matteo con una sola pennellata. In Giuseppe risplende la virtù, detta “cardinale”, della giustizia, di cui la pace è il frutto maturo.
“La pace è opera della giustizia”: gli “operatori di pace” (cf. Mt 5,9) sono, per così dire, “promotori di giustizia”, la quale è uno dei quattro pilastri, assieme alla verità, all’amore e alla libertà, che sostengono la “casa della pace”, così come la disegna Giovanni XXIII nella Pacem in terris. Paolo VI, nella Populorum progressio, sottolinea che “lo sviluppo è il nome nuovo della pace” fra i popoli, la quale si fonda su strutture politiche ed economiche eticamente orientate, ma queste si edificano su basi solide solo se esistono processi di bonifica del cuore. La pace è, infatti, un dono di Dio da accogliere con premura e un progetto, mai totalmente compiuto, da realizzare con coraggio, tenendo bene a mente che se la pace è la “grande opera” della giustizia sociale, la riconciliazione del cuore è il “cantiere” della pace in continuo allestimento.
La pace è il risultato di un processo artigianale di purificazione e di elevazione culturale, morale e spirituale. La pace passa attraverso i piccoli gesti della vita quotidiana e giunge fino alle scelte degli uomini che hanno responsabilità di governo. È a partire da questa consapevolezza che la Chiesa si fa portavoce della “coscienza morale dell’umanità”; essa parla della pace sia all’imperativo che all’indicativo, non come qualcosa di facoltativo. Forse, mai come oggi, la Chiesa è così presente nelle “avanguardie della lotta per la pace”, senza prendere parte al “pacifismo da sfilata”, sia dichiarando che la corsa agli armamenti è un furto, un crimine, una pazzia, sia riconoscendo, come extrema ratio, il diritto di difendersi con una forza proporzionata alla violenza subita.
“La pace non è così semplice come la immagina il cuore, ma è più semplice di quanto non stabilisca la ragione (…). Bisogna essere almeno in due – sottolinea il card. Roger Etchegaray – per fare la pace, mentre basta uno solo per fare la guerra!”. Il dialogo è, in effetti, uno strumento efficace per camminare lungo la via della pace, che ha tre corsie: la diplomazia, la mediazione, il negoziato. “Se pensiamo ai conflitti bellici – osserva Papa Francesco –, le guerre si concludono, normalmente, in due modi: o con la sconfitta di una delle due parti, oppure con dei trattati di pace. Non possiamo che auspicare e pregare perché si imbocchi sempre questa seconda via; però dobbiamo considerare che la storia è un’infinita serie di trattati di pace smentiti da guerre successive”.
Fratelli e sorelle carissimi, il mondo non è ostaggio delle potenze degli inferi: la storia si dipana sotto lo sguardo misericordioso di Dio Padre. Egli, “a cui appartengono il tempo e i secoli”, apre sempre nuovi spazi al cambiamento di rotta, scegliendo di passare, con la croce di Cristo, attraverso la “cruna” del vagabondare della libertà umana. Il male non ha l’ultima parola: la preghiera ha il potere di cambiare il cuore dell’uomo e il corso della storia. “Pregare – assicura Papa Francesco – è portare il palpito della cronaca a Dio, perché il suo sguardo si spalanchi sulla storia”. Pregare significa osare chiedere a Dio la stessa benedizione concessa ad Abramo: “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18).
All’intercessione di San Giuseppe, “la cui bontà è grande quanto il suo potere”, affidiamo l’invocazione suggerita da Papa Francesco: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, ti imploriamo! Ferma la mano di Caino! Illumina la nostra coscienza, non sia fatta la nostra volontà, non abbandonarci al nostro agire! Fermaci, Signore, fermaci! E quando avrai fermato la mano di Caino, abbi cura anche di lui. È nostro fratello. O Signore, poni un freno alla violenza! Fermaci, Signore!”. Questa supplica raccoglie il grido di dolore di una moltitudine immensa di persone costrette, in varie parti del mondo, a lasciare la propria terra divenuta un campo di battaglia. I tanti volti smarriti, soprattutto di donne e bambini, in fuga dall’Ucraina, richiamano alla mente il pianto degli Israeliti deportati in terra straniera: “Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion” (Sal 137,1). Le loro lacrime siano terse dalla nostra solidarietà concreta e generosa: nessuno di noi osi avere sulle labbra la parola pace senza custodire semi di pace nel cavo della mano.
+ Gualtiero Sigismondi